Il pane, più di ogni altro alimento, ha un aspetto simbolico e storico importantissimo. Ripercorrerne la storia vuol dire affrontare un tema decisivo per le comunità umane: il sacro.
In copertina un’opera medievale raffigurante la comunione
Questo è articolo un estratto di “Il pane fra sacro e umano“, pubblicato da Le Lettere.
di Zeffiro Ciuffoletti
Nello straordinario volume di Heinrich Eduard Jacob sui Seimila anni del pane, c’è un capitolo intitolato Pane sanguinante che ricostruisce la storia, fra sacro e profano, della disputa sulla natura del pane che lacerò il mondo cristiano per molti secoli dal medioevo all’età moderna. Nel suo celebre Dizionario filosofico (1764) Voltaire alla voce Eucarestia scrisse che «Metà dell’Europa scomunicò l’altra metà sul tema dell’eucarestia e il sangue fu versato a fiumi dal Mar Baltico ai piedi dei Pirenei, per quasi duecento anni, a causa di una parola che significa “dolce carità”». E poi, riferendosi al mondo protestante, ricordava che per loro i cattolici romani avevano «fondato la loro dottrina dell’eucarestia e della transustanziazione soltanto su un equivoco» ed avevano «preso in senso letterale ciò che poteva esser detto esclusivamente in senso figurato». Così «sono seicent’anni che il mondo, a causa di malintesi, viene insanguinato da controversie». La messa, la celebrazione eucaristica, per i cattolici rappresentava, in effetti, il momento più alto del sacrificio della croce, la transustanziazione, che veniva chiamata semplicemente “Santa Cena” o “Cena del Signore”. Tutto ciò in una fase di forti tensioni religiose interne al cristianesimo con le “eresie”, ma anche esterne per via delle crociate.
Fu il grande papa Innocenzo III, campione dell’universalismo papale nel mondo cristiano, in occasione del dodicesimo concilio ecumenico, quarto del Laterano, aperto l’11 novembre del 1215, alla presenza di settanta patriarchi e arcivescovi, più quattrocento vescovi e ottocento abati, ad approvare la “transustanziazione”, cioè la presenza del corpo reale di Cristo nel pane eucaristico, cioè l’ostia. Tutto questo avveniva nella “Santa Cena” dove Cristo spezzava il pane per gli apostoli. Fu, poi, il papa Urbano IV ad estendere la festa della celebrazione dell’eucarestia a tutta la cristianità con la bolla Transiturus (1264). La festa del “corpus domini” era, in effetti, la festa del “Corpo e sangue di Cristo”, che si celebrava a Liegi per iniziativa del vescovo Roberto di Thourotte, già dal 1258. Il vescovo era stato spinto a ciò dalle rivelazioni della monaca agostiniana, sorella Giuliana, che prestava la sua opera caritatevole nel lebbrosario di MontCornillon, sorto vicino alla città belga proprio per fronteggiare la piaga della lebbra. Papa Urbano IV era stato arcivescovo di Liegi ed era molto sensibile a quella festa del “corpus domini”, ma fu proprio ciò che avvenne a Bolsena nel 1263 a spingere il papa ad emettere la bolla. A Bolsena un prete, Pietro da Praga, dubbioso sulla reale presenza del corpo di Cristo nell’eucarestia, mentre elevava l’ostia, si accorse che questa cominciava a sanguinare. Quella festa del “corpus domini” ebbe una grande, grandissima accoglienza nei fedeli di molti paesi europei, dalla Spagna alla Francia, dal Belgio all’Italia. In Umbria e nelle regioni confinanti la processione del “corpus domini” si legò alla pratica delle “infiorate” con i fiori gialli delle ginestre, ma anche all’usanza di una minestra di pane e fior di ricotta che i contadini donavano ai paesani. Naturalmente il “mistero della transustanziazione” diede luogo ad aspri contrasti che si prolungarono nel tempo.
La disputa, in realtà, non fu solo teologica, anche perché si svolse in un contesto dominato dalle guerre, dalle carestie e dalle pestilenze che decimarono la popolazione europea.
La decadenza dell’impero romano, come noto, segnò anche la decadenza dell’agricoltura in molte parti dell’Europa cristiana e il pane divenne per molti un sogno e un incubo. Addirittura dal VII secolo in Europa si rincorsero la fame e le carestie e si fecero sempre più fitti i casi di cannibalismo, a partire dalla Germania e dalla Francia. Dopo il Mille, l’ondata di cannibalismo si attenuò in Europa occidentale, ma non in Europa orientale. In Boemia, nella Slesia, in Polonia non cessò sino al tramonto del Medioevo. Alla fine dell’XI secolo, al tempo delle prime crociate, si diffuse la lebbra che, nel clima di fanatismo religioso, sembrava incarnare l’impurità delle anime. I lebbrosi venivano banditi dalla comunità, secondo le indicazioni della Chiesa. La lebbra c’era, ma non era contagiosa, mentre il fanatismo lo era. Si costruirono lebbrosari e lazzaretti, dove talvolta finirono anche coloro che avevano malattie della pelle, ma non la lebbra. Spesso i lebbrosi furono perseguitati e accusati di complottare contro la comunità avvelenando le acque e appestando i sani. Naturalmente insieme con i lebbrosi, veri o presunti, si accusavano i soliti ebrei o anche i musulmani: essi venivano arsi vivi e i loro beni confiscati, specialmente in Francia.
Poi nel Trecento, fra il 1346 e il 1350, come è noto, arrivò il flagello della peste. Pare che essa sia giunta in Italia, trasmessa dai mongoli ai genovesi, che avevano un insediamento a Caffa (oggi Feodosiya), sulla costa orientale della Crimea. Infatti i tartari, che li attaccarono, scelsero di catapultare i cadaveri dei loro morti di peste all’interno delle mura di quella città. Le pulci dei cadaveri infettarono i genovesi secondo la sequenza con cui si trasmette il batterio Yersinia pestis all’uomo, cioè attraverso la puntura delle pulci dei topi o il morso dei ratti stessi. Per sfuggire all’epidemia, tre galee genovesi presero il largo con il loro carico di morte. L’approdo a Messina segnò la data d’inizio della grande pestilenza che tra il 1346 e il 1350 si portò via un terzo della popolazione europea. Si confermava così la sequenza che imperversava in Europa: carestia, guerra e pestilenza. La pestilenza dalla Sicilia salì verso Nord, in Italia, in Francia meridionale, poi in Spagna, poi in Inghilterra, poi ancora in Germania e in Russia. Ad ondate successive avanzava e si espandeva. In Inghilterra ci furono oltre un milione di morti. A Firenze la popolazione fu più che dimezzata, e a Lubecca ne fu colpita circa il sessanta per cento. In totale la peste inghiottì un terzo della popolazione europea di allora che si stima avesse raggiunto i settanta-ottanta milioni.
In un contesto di questo genere, senza dimenticare le guerre intestine e lo scontro con l’avanzata del mondo arabo-islamico, il cristianesimo, che pure si era spinto sino alla Russia grazie alla conversione di Vladimir il Grande nel 988, si lacerò sulla natura del “pane”, che Gesù aveva spezzato per i suoi discepoli. Ci si divideva e si disputava se quell’atto rappresentasse un fatto simbolico oppure il corpo di Cristo fosse realmente presente nel pane che gli apostoli mangiavano, quando aveva detto: «Io sono il pane». In verità il tema era terribilmente intriso di umanità e spiritualità. La gente aveva fame, ma aveva anche bisogno di miracoli. Il pane era al centro di questo crogiolo di bisogni e di sentimenti. Gli evangelisti descrivono con grande delicatezza la pietas di Gesù, ma anche le aspettative miracolose. Giovanni narrò il «miracolo» delle nozze di Cana: mancava il vino e Gesù trasformò l’acqua in vino. Così quando i suoi discepoli, che lo avevano seguito nel deserto per evitare la persecuzione, ma anche per ascoltare la sua predicazione, furono assaliti dalla fame, Gesù «moltiplicò» i pochi pani e i pochi pesci, saziandone circa cinquemila. La fede richiede soltanto di crederci, ai miracoli, e la fede può saziare anche lo stomaco: una piccola quantità di cibo può saziare, grazie alla fede. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice di essere «il pane vivo che è disceso dal Cielo» e che chi mangerà questo pane «vivrà in eterno».
«La credenza – scrive Jacob – che esistesse “un pane della vita” il quale assicurava l’immortalità aveva dominato lungamente in Oriente. I Greci chiamavano questo pane “ambrosia”; ne avevano preso l’idea dai Babilonesi. Durante la cattività babilonese (597-537 a.C.) gli ebrei avevano avuto conoscenza del “pane della vita”». Quindi Gesù poteva trovare un terreno preparato nella credenza dell’esistenza di un pane che assicurava la vita eterna, ma egli diceva anche che quel pane era lui stesso. Credere a questo era troppo per le élites intellettuali greche del tempo e per gli ebrei in particolare. Quando Gesù, insieme con i suoi discepoli, sentì arrivare il tempo della fine, manifestò il desiderio di mangiare insieme con loro l’agnello dell’Ultima Cena. Matteo narra che Gesù prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede agli apostoli, dicendo: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo. Poi prese il calice e, rese grazie, lo diede loro, dicendo: bevete tutti. Perocché quest’è il mio sangue del nuovo testamento e che viene sparso per molti in remissione dei peccati». Siccome Giuda si era allontanato, i discepoli erano solo undici e con lui diventavano dodici come il numero delle tribù d’Israele e come il numero dei pani nel tabernacolo ebraico. Resta il fatto che l’ultima cena è ricca di simboli e di mistero e si può capire perché la cristianità si sia a lungo lacerata e scontrata. Si pensi alla traduzione del Santo Graal, la coppa con cui il Signore celebrò l’Ultima Cena e in cui Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il sangue dopo la Crocifissione. La questione che tormentava e divideva si può sintetizzare così: Gesù aveva compiuto un atto simbolico oppure il suo corpo era realmente presente nel pane che gli apostoli mangiavano? Persino i padri della Chiesa, anche se non tutti, ritenevano che nell’ultima cena non fosse avvenuta la “transustanziazione”, ma si fosse trattato di simboli ed il pane fosse sacro perché Gesù lo aveva scelto come simbolo di sé stesso. Altri, però, credettero che Gesù, mangiando e bevendo, avesse miracolosamente trasformato il pane e il vino nella sua carne e nel suo sangue.
Tutto questo mentre imperversavano le eresie che furono perseguitate da papa Innocenzo III con la stessa forza con cui predicava e indiceva la quarta crociata. Gli eretici, in realtà, erano espressione di movimenti popolari, come i Patari, gli Umiliati, gli Spirituali o i Gioachinisti, che, più dei dogmi, mettevano in discussione il malcostume del clero e dei potenti, denunciando il tradimento del messaggio evangelico. I movimenti pauperistici miravano a recuperare lo spirito di povertà e giustizia del primo cristianesimo, a cui aspirava anche Innocenzo III che non ignorava la corruzione romana, ma non poteva rischiare di indebolire il potere del Papa, così come si andava affermando secondo la sua personale visione teocratica. Molti di questi movimenti furono regolarizzati come ordini religiosi interni alla Chiesa. Così fu per gli Umiliati e i Fratelli Penitenti di Francesco d’Assisi il cui messaggio di povertà e carità scuoteva i cristiani. Ma gli Albigesi furono massacrati senza pietà, proprio quando più forte era il potere di Innocenzo III, a cui i sovrani rendevano omaggio. Così nel dodicesimo concilio ecumenico si celebrò la forza della Chiesa di Roma e del suo pontefice. Le termine “transustanziazione” per indicare la trasformazione sostanziale della forma eucaristica e finirono con l’affermare che Cristo era effettivamente presente nella Santa Eucarestia, oltre che con l’imposizione per i cristiani di confessarsi e comunicarsi almeno una volta all’anno e, infine, con la condanna delle varie eresie, fra le quali la congregazione di Gioacchino da Fiore, di cui si condannava la profezia di una terza età del genere umano, senza Chiesa e senza Stato. Gioacchino, morto nel 1202, predicava una comunità di credenti, di umili ed eguali, contestando, così, l’assetto gerarchico della Chiesa.
Nell’ultima cena Gesù aveva chiesto ai suoi discepoli di cibarsi della sua carne e del suo sangue e il prete aveva il potere di compiere la stessa trasformazione. Ogni altro credo costituiva un’eresia ed un peccato mortale. Ora il problema diventava l’ostia e San Tommaso d’Aquino disse che doveva essere fatta di frumento. Non a caso egli era nato nelle vicinanze di Napoli, dove il pane più pregiato era proprio quello di frumento.
Il pane, la natura del pane, fu al centro del dissenso che produsse separazioni, scissioni e fratture inconciliabili nella cristianità. Tutto ciò mentre le sofferenze e le carestie ponevano al centro il pane, con il grano e la terra da cui trae vita con il lavoro dell’uomo. Tutta la “filiera”, dalla terra al pane, rappresentava essa stessa un “miracolo” vivente, cui l’uomo affidava la sua esistenza. Prima di ogni pasto gli ebrei recitavano: «Benedetto tu, o Signore, nostro Dio, Re dell’Universo, che fai uscire il pane dalla terra».
Nei primi tempi del cristianesimo i “pani eucaristici”, scrive Jacob, erano grandi a forma di ghirlanda con un foro centrale. Poi si passò a pani piccoli e piatti. Infine dopo il Mille si usò pane azzimo cioè non lievitato, ma subito si accese una disputa fra Roma e Bisanzio, perché i greci non abbandonarono la credenza del pane lievitato. Da qui una disputa infinita, mai più risolta.
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