
Sempre più caldo.
Fa sempre più caldo.
Non posso uscire dalla mia camera.
Non posso scappare dallo sguardo vigile del mio ventilatore cinese,
un Cat in finto metallo a tre velocità che sembra pure bello con la sua aria da oggetto di recupero industriale che fa tanto loft newyorkese.
In realtà è di plastica e non ventila un bel niente,
smuove masse d’aria calda.
E poi non siamo a New York ma siamo a Firenze.
Piazza di San Martino numero tre,
manco un albero nel raggio di un chilometro.
Non so quanti gradi ci siano per le strade infuocate e non lo voglio neppure sapere.
È quel momento dell’anno in cui i telegiornali mandano in onda i servizi d’archivio con i turisti in visiera che fanno la doccia nelle fontane romane e gli anziani sono seduti nell’ombra mentre sventolano qualcosa.
Alcuni muoiono.
Dovete bere tre litri d’acqua il giorno!
Impensabile.
“Dovete bere tre litri d’acqua il giorno!
Impensabile.”
Non ho nessuna intenzione di andare a vedere un film al cinema,
poi di film che mi interessano non ce ne sono,
resiste solo Garrone ma io di fantasy non ne voglio proprio sapere.
Non ho mai letto Tolkien,
guardato una puntata di “Game of Thrones”,
non ho alcuna familiarità con orchi, troll, principesse e folletti,
i regni per quanto mi riguarda non esistono nemmeno nei cieli
e le uniche spade che conosco sono quelle di He-Man, Dartagnan, Portos e Aramis.
Però che strano un film fantasy fatto in Italia e da un italiano.
Certo, come dimenticare “Fantaghirò”(1991) del buon vecchio Lamberto Bava che comunque sia non ho mai visto interamente.
Poco male, tanto a Natale quando sarà finalmente inverno lo ridaranno su Italia uno,
in prima serata il ventiquattro dicembre.
Io avrò riposto in letargo il mio ventilatore,
sarò avvolto in due strati di golf e non lo vedrò neanche quest’anno.
Ma sarò felice perché al caldo nel freddo.
Non ho mai letto neppure i fumetti,
così come non ho mai giocato con le carte Magic e tantomeno partecipato a giochi di ruolo.
Non sono un fenomeno nemmeno sui cartoni animati se si escludono i classicissimi tipo:
“Holly e Benji”,
“Mila e Shiro”,
“Hello Spank”,
“Gigi la trottola”
e qualche robot,
infatti ho sempre fatto pena anche in fatto di sigle cosa invece di cui si vantano molti dei trentenni che conosco, i quali passano intere cene a cantare e cantare,
facendo a gara a chi ne sa di più
e io relegato in un angolo a tracannare il mio, il tuo vino rosso.
È un mondo che non conosco quello del fantasy
e che non voglio conoscere.
Sbaglio.
Il mio è un atteggiamento di chiusura aprioristica.
Amen.
Eppure sono pieno di amici che vanno matti per tutto questo genere di cose,
matti per la mitologia nordica,
i nani, i maghi, l’epica e la figura dell’eroe,
i manga giapponesi, le hits di Cristina D’Avena.
“Non ho mai letto Tolkien,
guardato una puntata di “Game of Thrones”,
non ho alcuna familiarità con orchi, troll, principesse e folletti,
i regni per quanto mi riguarda non esistono nemmeno nei cieli”
Il padre di un mio amico è addirittura l’autore della sigla di Babar,
un simpatico elefantino che non mi è mai capitato di incontrare su Italia uno e rete quattro
in compagnia di One e Four, i due conduttori di pelo di “Bim Bum Bam” e “Ciao Ciao”,
i programmi di una volta che allietavano i miei pomeriggi a suon di Girelle Motta.
Vuole la leggenda che il pupazzo One fosse a riposare nel sottoscala della scuola di arte drammatica Paolo Grassi di Milano e che un giorno di punto in bianco venne rapito.
Fu chiesto anche un riscatto ma poi non so come andò a finire.
Detto questo:
Garrone lo faccio fuori.
Comunque bravo.
È forte Garrone,
uno che passa dai documentari sugli immigrati e le prostitute (“Terra di mezzo” 1996 e “Ospiti” 1998), alle storie di cronaca (“L’Imbalsamatore” 2002),
poi le vele di Scampia che attraversa con la macchina da presa in una mano e Saviano nell’altra (“Gomorra” 2008), poi ancora il racconto di chi sogna una vita migliore nel Grande Fratello (“Reality” 2012).
E adesso un fantasy.
Eclettico.
Pensandoci:
è probabile che i prodromi del suo nuovo film fantasy,
che ripeto non ho visto,
siano rintracciabili nello stesso “Reality”,
un film a forti tinte fiabesche che emergono in modo coerente dal sapiente intreccio della sceneggiatura (Garrone, Gaudioso, Chiti, Braucci, Roviello) e della fotografia (Marco Onorato già direttore della fotografia di tutti i film di Garrone purtroppo scomparso)
Poi Garrone tutto sommato sembra una buona persona,
mi piace questa sua lunga gavetta nei bassifondi del cinema indipendente e in bianco e nero,
mi piace il suo essere capace di nuotare tra i generi cinematografici,
mi piace il suo basso profilo accanto agli ori, gli orpelli e gli incensi di Sorrentino.

Adesso fa ancora più caldo.
Sudo.
Il mio ventilatore Cat regolato su velocità due mi sta ghiacciando un sottile strato di sudore sulla schiena.
Mi guarda.
È arrogante.
Domani me ne vado in montagna, peggio per lui.
Non posso guardare un film al cinema,
non lo posso guardare al computer perché se fa caldo per andare al cinema fa caldo anche per guardarlo al computer.
Il problema non è il caldo ma l’azione.
Guardare un film.
Guardare un film nel caldo.
Di giorno.
Niente da fare.
Quindi?
Quindi non scriverò di alcun film.
Il cinema lo si fa con gli occhi e non con la macchina da presa,
dicono quelli bravi.
La camera è solo un mezzo.
Il cinema lo si fa con gli occhi mi ripeto.
Chiudo gl’occhi.
Io non dormo mai.
Mai.
Cosa vedo?
Il corridoio del treno in galleria.
Sono su un treno.
Io su un treno.

La testa appoggiata al vetro.
I fili elettrici corrono e saltano,
li seguo con gli occhi,
trapezisti invisibili.
Sono assuefatto al rumore delle rotaie.
È il ventilatore ma quali rotaie.
È tutto giallo.
C’è sempre qualcuno che bercia al telefono su tutti i miei treni.
Sui treni di tutti.
Il treno è il nonno del cinema penso,
“L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat” (1896, fratelli Lumiere),
quel film famoso che fece scappare tutti dal cinema impauriti che il treno gli saltasse addosso.
La magia del cinema.
Poi era ancora l’ottocento.
Comunque non è il primo film della storia,
come dicono in tanti,
forse il primo su un treno.
Questo sì.
Forse.
E comunque i film con/sui treni sono tantissimi,
è un genere,
anzi un sottogenere.

Sono ancora ad occhi chiusi.
Penso.
E penso che sono bravo a pensare ad occhi chiusi.
Penso di essere uno dei migliori.
Presuntuoso.
È una via di mezzo tra far finta di dormire e sognare.
Quindi pensare?
No. È diverso.
Occhi chiusi.
Il grido delle cicale rimbomba.
Il ritmo è quello del treno che trionfa sui binari di fuoco.
È ancora il ventilatore che mi frega, mi dico.
Che ventilatore meraviglioso:
sposta masse d’aria,
può essere rotaia ma anche
cicala.
Come si chiamano le ruote del treno?
Ruote.

Le cicale rimbombano.
Roccamare,
Castiglione della Pescaia,
Grosseto,
Maremma,
Toscana,
Italia.
L’odore della crema solare.
Qualche granello di sabbia rimane sul tappo.
La sabbia sulla schiena.
La sabbia sull’asciugamano scomposto.
La spiaggia è un posto scomodo.
Quella di sabbia e quella di scoglio.
Mia madre venticinque anni fa.
Stremata dal sole.
Torna dalla spiaggia come un reduce dalla guerra di Korea.
Lo specchio per prendere il sole.
Un’atleta della battigia.
I copri occhi di plastica colorata.
Come si chiamano?
Occhialini?
Occhialetti?
Paraocchi?
Un residuo degli anni ’80 che ormai non c’è più,
come lo specchio per prendere il sole,
come mia madre (che ormai preferisce il basso Tirolo),
come quelle come lei che donavano anima e corpo al dio Sole che le ricompensava baciandole il naso, la bocca, le anche, le gambe, le braccia.
Il seno libero e di lato di quelle che prendono il sole sulla schiena nuda.
Le sdraio.
La sdraio,
le sdraie,
la sdraia.
E poi quegli oggetti piccoli e ridicoli per tenere rialzata la testa dalla sabbia.
Bianchi e rossi e a strisce,
sembrano mini lettini
e come tutte le cose che sembrano altre ma in miniatura sono ridicoli.

Ho ancora gli occhi chiusi.
Sono ancora in treno.
Non riesco a dormire.
Quanti telefoni.
Quante orrende voci urlanti di umani da treno.
Alla mia destra:
Donna riccioluta,
brutta,
bruttissima,
età oscillante tra i quarantaquattro e i cinquantatre anni,
single,
voce nasale a sud di Napoli,
alcuni capelli bianchi,
molti capelli bianchi,
bocca fine vagamente all’ingiù,
sopracciglia fini vagamente all’ingiù,
taglio degl’occhi stile antica egiziana,
naso gigante nei paraggi della befana,
alcuni nei, uno peloso,
magra,
braccia nude,
sorriso stampato e compiaciuto,
vestitino estivo ocra recante motivi floreali minuscoli,
sta seduta protesa in avanti,
parla con qualcuno di cui ha particolare considerazione,
forse il maestro di yoga?
La psicanalista?
No.
Mani secche lisce, bianche e gialle,
lettrice di libri gialli,
fumatrice incallita.
Ha detto molte volte:”Vero?”.
Samsung modello base (touch screen).
Potrebbe essere attrice in teatro o in un film di Martone.
Un’amica di Emma Dante.
Aver fatto un provino nella compagnia dei “Teatri uniti” e aver pianto a dirotto.
Potrebbe vantare alcuni baci con la lingua con Peppe Servillo a sedici anni in quel di Posillipo. Potrebbe avere un’amica al suo fianco con la quale ha fatto amicizia sul treno quando è salita a Salerno,
ma ho detto potrebbe e infatti non c’è.
“Potrebbe vantare alcuni baci con la lingua con Peppe Servillo a sedici anni in quel di Posillipo. Potrebbe avere un’amica al suo fianco con la quale ha fatto amicizia sul treno quando è salita a Salerno, ma ho detto potrebbe e infatti non c’è.”
Più giovane,
logorroica,
probabile Fiorella.
Porta occhiali da vista con montatura importante,
capelli corti, mossi e un po’unti,
di quel colore indefinibile tra il rosso, l’arancione e il marrone,
cicciona,
jeans aderenti chiari a vita alta con conseguente eccesso di adipe in evidenza quando seduta,
scarpa estiva con zeppa di paglia,
carne tremula che pende dal braccio a riposo lungo il fianco,
coccinella e o Trilli tatuata sul polso,
destro,
l’ha fatta il giorno della maturità con l’amica del cuore,
Tiziana,
oggi non sono più amiche,
Tiziana ha un marito e tre figli,
tre maschi,
in merito a questo è solita dire:”mi sento protetta”.
Fiorella invece è single,
è sola,
indossa un’ampia T-shirt arancione con taschino appoggiato sul seno sinistro importante.
È collaboratrice domestica da quasi dieci anni in casa De Nardo,
appoggia la schiena generosa al vetro del treno rivolta verso la befana di cui sopra.
Ha tra le gambe un gattino siamese dentro una gabbia.
Non parla al telefono ma spippola ferocemente sul suo Motorola.
Ogni tanto abbozza un sorriso che riempie il vagone di luce.
Ma purtroppo non c’è.
Potrebbe essere un fortunato incrocio di geni tra e Gabourey Sidibe (“Precious” 2009, Lee Daniels) e Renèe Zellweger (“Il diario di Bridget Jones” 2004, Sharon Maguire).

La fila più avanti ancora alla mia destra:
Maschio,
27 anni,
militare,
probabile Giuseppe,
molto gel,
carnato abbronzato,
di piccola taglia ma fornito di muscoletti,
cerca qualcosa nella sua borsa modello società dilettantesca di calcio con in basso il sotto che si apre per il reparto scarpe riposta nella cappelliera,
è in piedi,
traballa a causa dell’alta velocità del treno e del suo genetico scarso equilibrio.
Ha una stupida maglietta aderente con scollo a V piena di numeri e scritte (“de puta madre” sulle spallette) che lascia intravedere il suo fisichino curato e apparentemente depilato.
Rinuncia a prendere ciò che cercava,
forse un marsupio a tracolla di Gucci nel quale tiene la stampa del biglietto del treno?
Un caricabatterie?
La settimana enigmistica?
Forse un pacchetto di fazzoletti di carta marca Tempo profumati al mentolo?
Forse uno, due Brooklyn al limone?
Uno ma ripiegato e all’arancia?
Un bastoncino di liquerizia?
La sigaretta elettrica?
Una foto tessera di quelle appena fatte in stazione per il rinnovo della sua patente scaduta?
Ma che ne so.
Quasi sta per cadere,
parla con le auricolari e col telefono in mano.
Samsung Galaxy 5 con custodia mimetica.
Potrebbe essere…
non lo so, i tamarri di questa caratura sono rari nel cinema ma sono spesso in tv (Maria de Filippi docet + “Jersey Shore”)
Dietro di me:
Io mi giro lui si accorge che guardo,
io guardo e lui vede,
mi rigiro sul mio computer e intanto apro le orecchie.
“…Bé…in questo caso Maurizia ti biasima…”
Che vuol dire?
Si chiama Carlo,
58 anni all’incirca ben portati,
brizzolato,
capello corto e a spazzola,
una via di mezzo tra Casini, Scajola e Martelli,
prima repubblica,
aria malvagia,
assetato di potere,
parla romano,
forze dell’ordine?
Ufficiale giudiziario?
No,
le sue mani cercano di aggrapparsi più in alto.
Non ha mai mangiato un Brooklyn al limone manco all’arancia,
manco alle medie,
non fuma,
pronuncia molti cognomi,
intercala con “mò”e“orco zio”,
tradisce sua moglie con prostitute di alto e basso bordo,
col pene e anche senza,
le prostitute,
lo si capisce dalle battute che fa al giovane amico col quale parla al telefono,
Andrè,
quarantadue anni,
lui pure sposato,
è alla spasmodica ricerca di fare carriera nel suo ramo d’azienda,
lavora alla Cromat,
un colosso nel turismo congressuale,
si occupa di creare momenti d’incontro al fine di mettere in contatto aziende multinazionali per scambiarsi know-how,
tali eventi sono chiamati ”round table”.
Andrè ieri sera ha cenato con Carlo,
che oggi indossa ancora i vestiti della sera prima,
giacca blu,
cravatta bordeaux,
una spilla all’occhiello di qualche organizzazione simil massonica,
tipo Rotary,
Lions,
rosa crociati,
crocerossini,
carbonari del duemila,
insomma quelle li,
una cintura di coccodrillo finta e rossiccia,
sta chiedendo all’amico Andrè “hai preso contatto con?”,
porta la fede,
ieri sera l’aveva lasciata in albergo pensando di trovare figa con Andrè,
niente da fare,
“fregne cucite”dice,
dita delle mani molto larghe,
unghia curata,
nodo alla cravatta vistoso,
probabile camiciola della salute,
alito pesante di quelli di quegl’uomini di quei tempi là (prima repubblica),
ai piedi un paio di quelle scarpe tra il ginnico e il non delle quali apprezza il tacco invisibile e la vestibilità,
si chiamano Hogan.
Auricolare lui pure.
Blackberry aziendale.
“nodo alla cravatta vistoso, probabile camiciola della salute, alito pesante di quelli di quegl’uomini di quei tempi là (prima repubblica)”
Potrebbe essere Fabbrizio Gifuni ne “Il capitale umano”(2013) di Virzì e il padre di un amico che quasi tutti hanno.
Davanti a me:
giovane hipster,
doppio taglio con gel sul sopra più lungo,
occhiale da sole anni ‘50 modello dolce vita Via veneto con viti metalliche in evidenza accanto alle lenti,
orecchino a sinistra,
pantalone modello acqua in casa su caviglia fina e abbronzata,
fantasmini che spuntano dal mocassino scamosciato e a punta quadrata,
probabile piede d’autore (42 affusolato),
camicia aderente bianca generosa sul petto,
bracciale di cuoio marrone modello Marco Aurelio,
ha dato un esame,
è passato copiando,
stasera fa festa,
beve Negroni e Martini,
torna a casa a gattoni,
non sa niente di calcio,
non segue gli sport,
fa il PR in qualche locale almeno entra gratis,
non ha la ragazza,
manco il ragazzo,
da bambino ha sofferto parecchio,
era un po’grasso,
lo chiamavano carciofo ripieno: iPhone.
Potrebbe essere un personaggio secondario in un film di Verdone, un “solito idiota”, un vj di MTV.

Accanto al carciofo:
Maschio,
età indefinibile,
tra i trenta e i cinquanta,
di colore,
Africa nera,
chewingum in bocca,
Vigorsol quasi certamente,
lo si sente da qua,
anello d’oro con stemma quadrato,
pantalone grigio gessato,
giacca grigia gessata,
camicia azzurra attillata aperta sul collo,
molto profumo,
è deodorante,
fisico possente (abbondantemente sopra i 90 kg x 190 cm),
sguardo vagamente iniettato di sangue,
è sul punto di scoppiare in un lago di lacrime,
parla in inglese,
italiano,
sa dire alcune cose in spagnolo,
come:”otra ves”, “Que tal” e “cabesa”.
La sua testa da dietro non è chiaramente distinguibile dal collo,
sembra un ceppo di una quercia gigante,
adesso piange e singhiozza.
Sembra una sintesi perfetta tra Marsellus Wallace (Ving Rhames) di “Pulp Fiction” (Tarantino, 1994), Forest Whitaker di “Ghost dog” (Jim Jarmusch, 1999) e Will Sampson, l’indiano gigante in “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (Forman, 1975).
Nella mano destra ha una cartellina di quelle di tela e con lampo sul dorso,
nella sinistra un telefono: LG.
Apro gli occhi.
Sono sudato.
Il ventilatore è al suo posto.
Mi guarda.
Che vuole?
Vuole girare più forte.
Lo accontento.
Velocità tre, il massimo,
lui gode io pure.
Sono passati pochi minuti.
Fra due giorni compio trentatre anni.
Come Cristo,
provo anch’io a farmi crescere la barba,
come tutti,
ma con scarsissimi risultati,
mica come Cristo che a trentatre anni portava ancora i capelli lunghi e aveva una barba perfetta e poi era già un rivoluzionario.
Peccato per quella storia di Barabba altrimenti chissà…
Film che mi hanno colpito che parlano di Cristo?
Nessuno.
Mi pare.
Mel Gibson compreso (“La passione di Cristo”, 2004).
Nonostante fosse un film in aramaico.
È forse un pregio?
No.
Nemmeno “Brian di Nazareth”(1979) dei Monty Python che ho odiato e trovato stupido e faticoso rispetto agli splendori di “E adesso qualcosa di completamente diverso” (1971), un film a episodi, un film che dribbla, scarta e sfugge, uno dei miei film preferiti.
Film che parlano di Cristo…
Forse “Antichrist” (2009) di Trier?
Non parla di Cristo,
non so di che parla,
l’unica cosa che conta e che c’è William Defoe,
un gigante dal cuore tenero,
ecco lui sì,
lui sì che ci starebbe bene in un bel film fantasy.
Sarebbe un bel troll.
Ne ha fatto qualcuno?
Non lo so.
Chiudo gli occhi di nuovo.
Mi aiuta a sentir meno caldo.
Il caldo è come il dolore in parte lo puoi combattere con la forza della mente:
cerca altri stimoli,
non concentrarti solo su quello,
non ci pensare,
se pensi che ciò che ti danneggia non esiste lo riduci a un fastidio,
una sorta di pizzicore al contrario,
è una legge che vale per quasi tutte le cose.
Come faccio a non pensarci con un ventilatore che mi urla nelle orecchie?
Facile,
fai finta che sia una rotaia,
cicala,
vento,
lui è quello che vuole
e quello che vuoi che lui sia.
Il mare.
Il vento.
Il mare.
Ancora Roccamare.
Ci ho passato tutto il mese di Giugno.
Ci ho passato tutte le mie estati e qualche scampolo d’inverno di questi ultimi trentatre anni.
Roccamare è un luogo dell’anima e un posto di mare.
È un posto di mare perché c’è il mare.
È un luogo dell’anima perché vive dentro di te prima, durante e dopo che tu ci vada,
è un luogo dall’atmosfera violenta capace di veicolare a seconda del tempo,
della luce o di come gli gira,
un’intera flotta di emozioni indipendenti da te,
dal tuo stato emotivo,
da quello che ti capita e da chi ti circonda.
Tutte le volte che lo lasci stai un po’ male,
mentre ci stai,
stai male,
prima di andarci stai male al pensiero di starci poi male.
Ma i posti belli sono forse quelli dove si sta male?
Secondo me sì,
gli altri sono solo posti insignificanti.
E i posti devono essere significanti.
Stare male in un posto significa qualcosa,
dando per scontato che il malessere sia inteso come una dimensione prettamente interiore.
I posti importanti sono quelli nei quali si sta male,
i posti dove si sta bene, tranquilli e sereni sono posti insignificanti.
Per stare male intendo entrare in una relazione profonda e critica con se stessi.
Una dimensione di riflessione.
A Roccamare ci sono la spiaggia di sabbia,
due file di scogli,
un fiume di nome “Tonfone”
e una lunga fila di capanni sotto i quali ripararsi dal sole.

Alcune case,
che solitamente sono ville degli anni’60 realizzate dall’architetto Ugo Miglietta,
evidentemente seguace di Sir Frank Lloyd Wright: tetti piatti, ampie vetrate, mattoni tipo pietre, pietra serena e arredamenti interni svedesi degli anni ‘60.
Finito.
Non ci sono le palme,
mai vista la neve,
nessun gelataio,
solo alcuni giaguari.
Maschi.
Scherzo.
Non ci sono bar, ristoranti, benzinai e postini.
Non ci sono taxi, semafori e autobus.
Non c’è l’ospedale,
non c’è nulla,
solo le case,
le anime di chi le vive,
i giardinieri
e dei guardiani che sembrano ranger.
Ci sono i pini che sono presenze ingombranti,
del resto è una pineta,
i pini entrano in casa,
attraversano i salotti,
ti lanciano le pine in testa, sull’auto, sul ping pong,
spaccano le strade e nascondono misteri.
Il sole li attraversa per sbaglio
e sotto,
al di sotto dei pini,
l’impero dei piedi nudi,
zoccoli,
infradito,
espadrillas,
mocassini,
Superga,
pochi sandali,
aghi di pino,
miliardi di formiche,
la sabbia e il ghiaino.
Alcuni pinoli.
Roccamare a volte sembra la Malesia,
a volte l’Olgiata altre volte Carmèl.
Si entra attraversando una sbarra,
chiedendo il permesso a una guardia giurata vestita da ranger.
Questi custodi,
fanno tutti Giorgio di nome,
sono in tutto e per tutto i colleghi maremmani del buon vecchio Ranger Smith,
l’antagonista del caro Orso Yoghi ma senza il cappello.
Roccamare È un luogo di luce e di ombra.
La notte è buia profonda,
rimane solo la luna a illuminarne le strade
e senza di quella non si vede più niente
ascolti nel buio i suoni e i rumori: saranno i giaguari?
A Roccamare si può avere paura e si teme che qualcuno ti segua nel buio.
Qui è morto Calvino,
è morto Fruttero e scrive Citati.
Chissà se Calvino proprio qui ha scritto la sua fiaba “Fanta-Ghirò, persona bella”?
Lo giuro su dio,
uscita nella raccolta “Fiabe Italiane”(1956).
Qui hanno girato un “Manuale d’amore” (il terzo, 2011) e creato il “Caos Calmo” (romanzo ed. 2006; film 2008) ;
il primo di Giovanni Veronesi con un “sorprendente” Bob De Niro che ormai sempre più spesso per due palanche si svende,
il secondo tratto dal romanzo di Sandro Veronesi e diretto da Antonello Grimaldi con Nanni Moretti nelle vesti del protagonista, ambientato per lunghi tratti proprio a Roccamare.
Manuale d’amore 3 è un film inutile come i primi due,
Caos Calmo è un romanzo privato,
la trasposizione filmica non ha niente da dire fatta eccezione per le poppe di Isabella Ferrari.
I due fratelli manco a dirlo hanno casa qui a Roccamare,
stanno in spiaggia accanto a me ma non parlano con me.
A Roccamare hanno visto nuotare alcuni James Bond,
hanno visto ballare una sera quello di “Pretty Woman”,
mia madre un giorno mi disse:”Io c’ho ballato a una festa e ti giuro è parecchio più basso del babbo”
È un posto dove si vive di umani,
tra umani,
è come su un’isola.
Nel deserto dei tartari non ti perdi da solo ma ti perdi negl’altri e aspetti un nemico.
Sento delle chiavi che girano nella porta d’ingresso.
Apro gl’occhi di scatto.
Sono le cinque.
Manca ancora tantissimo al calar delle tenebre,
al primo bicchiere di vino bianco gelato
e a un po’di fresco nell’aria che brucia anche se qui non si muove una foglia.
Si sta come d’autunno sugli alberi le sogliole.
Non so cosa fare.
Aspetto sul letto che qualcuno mi parli.
Chiudo gli occhi ancora una volta.
Il mio ventilatore mi guarda e mi dice:
“Non ci pensare”
Di Lorenzo Bechi
www.filmsolo.org