Virtù e trappole dell’autofiction: Carrère contro Dyer



Da Geoff Dyer a Emmanuel Carrère, l’autobiografia, vera o inventata, è un genere letterario in ascesa: ma cosa ci dicono questi romanzi?


In copertina e nel testo: Renato Guttuso, Studio di testa (1953) – Olio su tela – Asta Pananti in corso

di Dario De Marco

Lo so che non dovrei dire “io”. Me l’hanno insegnato, ce l’hanno insegnato, nelle vecchie scuole di giornalismo, i giornalisti della vecchia scuola: le fatiche del cronista non fanno notizia, e cose così. Mai usare la prima persona, un tabù necessario, eppure qualche volta stupido e opprimente, eppure finalmente negli ultimi tempi abbattuto molte (troppe?) volte . La scrittura online è smisurata, non pone limiti tecnici né alle dimensioni degli articoli né a quelle dell’ego. Eppure io faccio ancora un po’ fatica a dire io. Ma stavolta è proprio necessario, che io dica io. Perché questa è una cosa che è successa a me, anche se “successa” forse non è il termine giusto, non trattandosi di un accadimento ma di un pensiero. O meglio, di un’illuminazione: ho capito che per me Geoff Dyer è infinitamente superiore a Emmanuel Carrère; o insomma che a me piace molto di più. E tanti piaceri, direte voi. Già. Ma dietro questa mera dichiarazione di gusti – cioccolato si, caramello salato no – sta il fatto che forse ho capito qual è la vera, la grande differenza tra Dyer e Carrère.

C’è bisogno di rimarcare una differenza? Sì, forse sì: i due infatti sono spesso accostati, spesso assimilati perché considerati esponenti di quel genere vario e vago, vagamente e variamente definito come autofiction, narrativa non fiction, memoir inaffidabile, romanzesco intriso di autobiografia o viceversa. Genere – o forse stile, se non moda – cui vengono ascritti altri, pure grandi, nomi della scrittura contemporanea: Joan Didion e Olivia Laing e Walter Siti e W.G. Sebald. 

Sebbene mi pare che Sebald giochi in tutt’altro campionato, sia per incomparabile superiore qualità dei risultati – parliamo di uno dei pochi geni assoluti della letteratura contemporanea, anche se è morto vent’anni fa, sta ancora oggi venti anni avanti, o duecento – sia proprio per la differente sostanza dei suoi scritti: addirittura mi sembra che in Sebald il gioco tra finzione e realtà sia rovesciato rispetto allo schema classico dell’autofiction. Mentre quest’ultima prende fatti realmente accaduti e li inquina, in maniera più o meno surrettizia, con elementi di fantasia, Sebald prende fatti totalmente inventati e prova a esporli con l’oggettività della cronaca, della storia. Mi sembrano quasi mockumentary, versioni scritte dei falsi found footage. Si pensi, per tutti, al caso della fotografia che campeggia sulla copertina di Austerlitz: è una foto di Austerlitz da bambino, ma Austerlitz è un personaggio inventato, mentre la foto è vera, o almeno “vera”; quindi in che senso quel bambino è Austerlitz, e soprattutto chi diavolo è quel bambino nella cosiddetta realtà – ecco, tra l’altro, in nuce questa riflessione non è mia, l’ho solo ripetuta peggio, ma non riesco a ricordare dove l’ho letta per cui non posso citare la fonte, e voi vi beccate il pezzotto, spiace).

Accomunati anche dall’età (1957-1958) e dalla reciproca ammirazione, sia Carrer che Dyer sono oggettivamente molto bravi, ma anche molto irritanti – si parla del personaggio pubblico, di apparenze, non mettiamola sul personale, e d’altra parte a confondere i piani hanno iniziato loro, come si dice. La differenza forse, come mi ha scritto di recente in chat un critico letterario che vi giuro esiste ma preferisce restare anonimo, la differenza è che “Carrère sembra proprio una persona con cui non vorrei avere a che fare, un narcisista patologico, Dyer è il tipico britannico arrogantello che si arrangia”.

Sotto, però, sospettavo dell’altro. Che non riuscivo a definire, ma che riguardava più specificamente la scrittura, la letteratura. Una questione di atteggiamento, anzi di movimento: dall’esterno verso l’interno per Carrère, dall’interno verso l’esterno per Dyer.

Apparentemente sembrerebbe proprio il contrario: il primissimo periodo di Carrère è quello in cui scrive dignitosissimi romanzi (I baffi, La settimana bianca) ma soprattutto libri strepitosi come Io sono vivo, voi siete morti, una biografia dello scrittore Philip Dick che è allo stesso tempo anche esegesi letteraria e viaggio psichedelico in una mente allucinata. Poi arriva L’avversario, una svolta nella sua carriera, e forse anche nella letteratura contemporanea.

La mattina del sabato 9 gennaio 1993, mentre Jean-Claude Romand uccideva sua moglie e i suoi figli, io ero a una riunione all’asilo di Gabriel, il mio figlio maggiore, insieme a tutta la famiglia. Gabriel aveva cinque anni, la stessa età di Antoine Romand. Più tardi siamo andati a pranzo dai miei genitori, e Romand dai suoi. Dopo mangiato ha ucciso anche loro. Ho trascorso da solo, nel mio studio, il pomeriggio del sabato e l’intera domenica, in genere dedicati alla vita familiare, perché stavo finendo un libro al quale lavoravo da un anno: la biografia dello scrittore di fantascienza Philip K. Dick. L’ultimo capitolo raccontava i giorni che lo scrittore aveva passato in coma prima di morire. Ho finito il martedì sera, e il mercoledì mattina ho letto il primo articolo di “Libération” sul caso Romand.

Un incipit da manuale, quasi un manifesto di questa nuova frontiera dell’autofiction. (Come per altri versi lo è il più sintetico, fulminante incipit di Troppi paradisi: “Mi chiamo Walter Siti, come tutti”.)

L’avversario inaugura il filone del nuovo, del vero Carrère, e ne rappresenta al contempo forse il punto più alto: capo-lavoro, chef-d’oeuvre come si dice appunto in Francia, in senso sia cronologico sia valutativo. Perché se nell’opinione corrente da lì la scrittura di Carrère prende il volo, diventando qualcosa di originalissimo, di unico, per altri la china è discendente. 

Che siano romanzi o reportage giornalistici, Carrère scrive sempre nello stesso modo, e se lo rivendica: “Alla prima persona, menando il can per l’aia e raccontando le cose in maniera un po’ sinuosa”. D’altra parte, se uno sente la necessità di intitolare un libro (bello, non scherziamo) Vite che non sono la mia, che gli vuoi dire.

Di chi parla Carrère in Limonov, per esempio, dello scrittore russo o di sé attraverso lui? Negli ultimi libri poi pare abbandonare ogni remora, e prendere spunto da qualsiasi cosa per arrivare a sé, alla propria ricerca spirituale, alla sua insostituibile vita (Il regno, Yoga). Dall’esterno all’interno, appunto.

Renato Guttuso, Studio di testa, 1953

Dall’esterno all’interno, sembra muoversi Geoff Dyer in molti suoi momenti: per esempio i racconti di viaggio, da Yoga per gente che proprio non ne vuole sapere (ecco un’altra cosa che accomuna i due) a Sabbie bianche, stralci diaristici in cui il mondo è un mero pretesto per il viaggio più interessante, quello interiore. Anche se il percorso dell’inglese è molto più ondivago, e più vario: ci sono veri e propri saggi, di letteratura e soprattutto di fotografia, ci sono all’inizio e poi di nuovo recentemente dei romanzi-romanzi.

Eppure quasi subito Dyer ha battuto una strada particolare, con il capolavoro indiscusso Natura morta con custodia di sax (But Beautiful): episodi mezzo ricostruiti e mezzo inventati dei grandi del jazz. Più sul bordo dell’ombelicale si muove nel bellissimo Zona, in cui ogni fotogramma del film Stalker di Tarkovsky è spunto per divagazioni, personali quanto universali.

Ma l’illuminazione, come dicevo, l’ho avuta leggendo uno scritto breve e strano, che si trova in un libro bello e strano: Contemporaneo occidentale, raccolta di autori vari ideata da Andrea Gentile (nomi famosi e meno, racconti e saggi e cose indefinibili come, ovviamente, questa). Il pezzo di Dyer si chiama Omaggio a Michele Avantario, citazione dell’Omaggio a Marco Aurelio di Iosif Brodskij che ne costituisce il leitmotiv, se pure per opposizione, e al tempo stesso sfacciata autoreferenzialità: chi diavolo è Michele? Un amico suo, che domande. 

È un pezzo che incomincia con aria svagata, che in certi momenti sembra insulso, indeciso, che si muove qua e là come il giovane Dyer per le strade di Roma. È fatto di eventi che sembrano casuali, a chi legge e a chi vive, quelle classiche avventure che abbiamo vissuto da ragazzi e a cui sul momento non diamo tanto peso: perché siamo tutta potenza e zero atto, e sappiamo che qualsiasi cosa ci accada, beh, poteva essere un’altra. Storie d’amore che già si sanno passeggere, pizze buonissime mangiate distrattamente, riflessioni sul senso della vita buttate lì come chiacchiere al bar e momenti in cui ci sentiamo di poter trattare da pari a pari con gli imperatori, i filosofi, i poeti. E tutto è facile anche se non sembra, tutto è irripetibile anche se non ce ne accorgiamo. E tutto è una continua scoperta, ma allo stesso tempo è ovvio: perché il mondo è lì davanti a noi, per noi. E tutto che sembra scendere dal cielo, e tutto che ci sembra dovuto, che ci sembra normale, solo perché sta accadendo. Ma poi a un certo punto smette: non di accadere, ma di essere così scintillante. Ed è allora che capiamo quanto era bello: quando non lo è più. A un certo punto, proprio alla fine, Dyer tira le fila del discorso, mette insieme tutto, anche gli elementi apparentemente casuali che aveva buttato qua e là. E ti tira una coltellata: perché all’improvviso capisci che stava parlando di te. Cioè, volevo dire, di me.    


Dario de marco Si occupa principalmente di letteratura fantastica e frittura sostenibile. Il suo ultimo libro è “Storie che si biforcano” (Wojtek, 2021) oppure “Alla ricerca della pizza perfetta” (66thand2nd, 2021)

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