Può sembrare un controsenso, ma vale la pena chiedersi se questo, il nostro, non sia un tempo caratterizzato dalla stanchezza. La pensa così, per esempio, il filosofo sudcoreano Byung-chul Han, e per delle buone ragioni.
In copertina un’opera di Raf Reyes
di Davide Cherubini
La nostra società è stata certamente descritta in tanti modi, più o meno coloriti: società dello spettacolo, postmoderna e secolarizzata; società della prestazione, capitalista e alienante; società della sorveglianza, ipercontrollata e iperconnessa; e chi più ne ha più ne metta. Sorprende però sentir parlare di una Società della stanchezza, per citare il titolo del libro del filosofo Byung-chul Han. Perché scegliere, tra i tanti attributi possibili, qualcosa di così apparentemente inattuale e desueto? Di stanchi ne è pieno il mondo fin dall’alba dei tempi (dall’Ulisse stanco di viaggiare e bramoso di tornare in patria al sonnacchioso e annoiato Oblomov) e certo non sembrerebbe che oggi viviamo nella stanchezza, presi come siamo a essere massimamente efficienti e attivi secondo tutta la risma dei prefissi pro: pro-attivi, pro-positivi, pro-duttivi. Ed è proprio per questo che l’analisi del pensatore sudcoreano risulta interessante, per l’accezione peculiare che dà della stanchezza.
Nel linguaggio comune siamo infatti portati a intendere come ‘stanco’ chi è privato di qualcosa (energie, fisiche o mentali che siano), insomma qualcuno a cui mancano una presupposta pienezza e normalità, che quindi dovrebbero essere reintegrate. Byung-chul Han sceglie invece di avventurarsi in una ricognizione della complessa costellazione di sfumature che caratterizzano questo termine: ‘stanco’ è sia l’individuo che ha esaurito le proprie risorse quanto quello che, invece, proprio in questo ‘meno’ della stanchezza gode di una particolare ‘potenza’: come un albero troppo carico di frutti finisce per piegarsi su se stesso e, infine, morire, così il soggetto risulterebbe non avvantaggiato, ma danneggiato dagli eccessi di cui dispone. Per l’autore questi eccessi si possono ritrovare nella generica disponibilità di oggetti, stimoli e possibilità di cui al giorno d’oggi più o meno tutti godiamo in abbondanza e che ricadono sotto l’etichetta dell’Ego (in tal modo distinto invece da un più genuino e salutare Io).
L’analisi prende quindi avvio dal porre in questione i mali che affliggono questi tempi pieni di individui laboriosi, tonici, pimpanti e pronti all’azione: i mali della psiche, le depressioni, le sindromi da burnout e gli esaurimenti. Cosa si cela dietro queste patologie se non un enorme esaurimento dell’Io?
Ma come, si dirà, dove sta questo Io esaurito se basta accendere la televisione per sentirci ricordare dalla prima pubblicità che passa di dover essere chi vogliamo e vivere senza limiti? Ecco, quel che Byung-chul Han evidenzia è l’insorgenza di tali patologie dovuta all’affermazione di quello che l’autore chiama il “paradigma della positività”. Secondo il filosofo sudcoreano i nostri mali sarebbero il frutto di un surplus di positività che, lungi dall’accrescere la potenza del soggetto, la fiacca e la logora. In base a tale lettura la nostra società non funzionerebbe più secondo il modello focaultiano della repressione (basato sulla privazione e sul divieto, insomma su un generico “non poter fare”), piuttosto secondo quello della performance, dell’accumulo infinito e indefinito di elementi positivi.
Una falsa ricchezza, questa, che tocca trasversalmente tanto il mondo della percezione (ricchezza di stimoli), quanto quello interelazionale (ricchezza di persone) e lavorativo (ricchezza di chance produttive). Comune denominatore di questi casi è la riduzione di tali input a meri oggetti a uso e consumo del soggetto il quale, così facendo, finirebbe al contempo a ridursi a cosa fra le cose, peraltro instaurando con esse un legame di ambigua e problematica dipendenza.
Per renderci conto di cosa qui il filosofo sudcoreano intenda basti pensare al mondo dell’informazione: il surplus di dati, di numeri e di notizie che ogni giorno subiamo non ci è necessariamente d’aiuto a pensare meglio, ad essere più liberi e consapevoli, ma spesso ci conduce a una sorta di atrofia del pensiero. Atrofia che rispecchia lo stato esistenziale delle patologie sopra menzionate. Risulta perciò riduttivo leggere la depressione come fallimento dell’imperativo tardo moderno: “sii te stesso”, in quanto lettura ancora legata a un’ottica del “meno che ancora mi manca di essere e che potrei (dovrei) essere”. Invece, “Il lamento dell’individuo depresso, ‘niente è possibile’, è concepibile soltanto in una società che ritenga che ‘niente è impossibile’”.
In tal modo è riscontrabile una continuità, non una rottura, nel passaggio dalla società della repressione a quella della prestazione.
Noi tutti siamo come il Prometeo del mito, ma tanto le catene che ci avvincono quanto l’aquila che ci rode il fegato non sono sovrastrutture esterne, ma parti di noi stessi: è la stessa libertà illimitata di cui godiamo che finisce per renderci al contempo iper-esigenti nei confronti di noi stessi e iper-competitivi nei confronti degli altri, facilitando in tal modo frustrazione e insoddisfazione. Vittima e carnefice finiscono perciò per essere indistinguibili. Questo carattere autoreferenziale genera una libertà paradossale che si rovescia in un una violenza autoindotta, incorporata, dove giudicato e giudice coincidono, e dove perciò non può darsi mai vera accettazione né perdono.
-->Se in questo mare magnum di possibilità e di occasioni non sei stato capace di renderti perfetto, allora beh, spiacenti, la colpa è solo tua dal momento che avevi tutte le carte in regola per farcela. Su questa iperattività si interrogava anche Roland Barthes che, in un’intervista rilasciata nel 1979 a Christine Eff per Le Monde Dimanche, diceva: “Bisognerebbe anche vedere che cos’è la pigrizia nella vita moderna. Ha notato che si parla sempre di un diritto agli svaghi ma mai di un diritto alla pigrizia? Mi domando del resto se da noi, occidentali e moderni, esista: non far nulla. Anche persone che hanno una vita completamente diversa dalla mia, più alienata, più dura, più laboriosa, quando sono libere non fanno: ‘nulla’; fanno sempre qualcosa”. Nel mondo prestazionale nel quale siamo immersi non è concessa cittadinanza alcuna all’ozio se non nella forma di “diversificazione temporale”: non esiste alcuna chance di arresto al nostro ininterrotto agire. Possiamo infatti concepire solo piccoli e brevi di-vertimenti (quelli che Pascal chiamava appunto divertissement, divagazioni di un soggetto incapace di stare solo con se stesso), diversioni all’interno dell’economia del lavoro, ma mai vera e profondamente improduttiva pigrizia.
C’è quindi una stanchezza radicale, patologica, l’essere “stanco di essere stanchi” dell’Io che si ripiega su se stesso proprio a causa di questa eccessiva eccedenza di stimoli e di oggetti. Peter Handke nel suo Saggio sulla stanchezza parla a tal proposito della “stanchezza che divide”, ovvero che agisce separando, creando solitudini. Una tale stanchezza la troviamo non solo nella dimensione performativa del lavoro, ma anche nelle relazioni umane, magari tra due felici innamorati che improvvisamente si scoprono distanti: “i due già precipitavano, inarrestabilmente, da parti opposte, ciascuno nella sua personale stanchezza, non la nostra, ma la mia qui e la tua là”. I due magari sono appena usciti dal cinema, provano a parlarsi ma non riescono a farlo; inspiegabilmente quel legame che fino a poco fa sembrava destinato a durare per sempre è un vago ricordo.

La solitudine che si viene a creare rompe ogni legame e conduce al mutismo: “mai e poi mai sarei stato in grado di dirle: ‘sono stanco di te!’, nemmeno un semplice ‘stanco’ (cosa che, come grido comune, forse ci avrebbe liberato dagli inferni individuali): queste stanchezze ci bruciavano la possibilità di parlare, l’anima”. Stanchezze violente perché distruggono ogni unione e comunanza, ogni prossimità, ogni linguaggio: “quel tipo di stanchezza, afasico come doveva restare, costringeva alla violenza. Questa magari si esprimeva soltanto nello sguardo che sfigurava l’altro”.
Di tale miopia ritroviamo traccia nella Trilogia dei colori di Krzysztof Kieślowski. In tutti e tre i film ricompare sempre la medesima scena: una vecchina prova, invano, a gettare una bottiglia nella cassonetto dei rifiuti. In Film blu la protagonista Julie, reduce dalla duplice dipartita del marito e della figlia, è incapace di vedere la vecchia signora: il dolore l’acceca, è troppo stanca per poter vedere un altro essere umano e pensare a qualcosa che non sia se stessa. In Film bianco troviamo invece Karol, lasciato da una moglie incapace di accettare la di lui impotenza, e come tale anch’egli è impotente davanti alla scena dell’anziana signora: la vede, certo, ma è come paralizzato, impotente appunto, e perciò non può far altro che osservarla da lontano. Solo in Film rosso la visione si apre all’azione, e sarà infatti Valentine l’unica dei tre capace non solo di vedere, ma anche di agire in forza della partecipazione emotiva e compassionevole nei confronti di un altro bisognoso.
In questo ultimo capitolo della trilogia del regista polacco vediamo quindi emergere un’altra forma di stanchezza, intesa però come attività e come forma di conciliazione. Tornando alle parole del premio nobel austriaco si tratta di una stanchezza come “plus del minus di Io”, che dischiude un tra, allentando così la chiusura autoreferenziale dell’Io. Questo spazio comune aperto all’Altro si offre come luogo dell’in-differenza, dove cioè non sussiste più una distinzione tra me e te, e di conseguenza viene anche a cadere ogni ruolo di potere e di dominio. In questa sorta di solidale anarchia (nel senso letterale di “assenza di governo”) l’Io depotenziato diventa in realtà un Io più forte e sano, in quanto è riuscito a guadagnare e ad accogliere quel mondo altrimenti tagliato fuori dalla miopia propria di ogni prospettiva egotico-narcisistica. Simone Weil utilizza, a tal proposito, il termine di “de-creazione” inteso proprio come capacità di fare a meno della propria persona come costrutto sociale, di essere meno come condizione per essere insieme: “per avvicinarmi a una vera interpretazione della realtà è quindi preferibile rendere equivalente la mia prospettiva a quella degli altri, scartando ciò che dipende da me e raccogliendo un comune denominatore”.
Secondo la filosofa francese l’essere umano è, innanzitutto, Ego: tende ad espandersi come un gas, occupando tutto lo spazio che gli è concesso. Per usare le parole di Byung-chul Han l’uomo è, quindi, essenzialmente positività e attività. Il problema sopraggiunge però nel momento in cui tale iper-attività si rovescia nel suo opposto, in un’iper-passività nella quale si segue ogni impulso. Un esempio di questo rovesciamento lo sperimentiamo quotidianamente nel mondo dei social network, dove il surplus di informazioni non sempre si traduce in una nostra maggiore conoscenza e capacità di agire, bensì in una forma di dipendenza dall’algoritmo digitale. Come in tempi recenti ha puntualmente messo in luce James Williams nel suo Scansatevi dalla luce il funzionamento delle piattaforme social si fonda proprio su un indebolimento della nostra capacità di attenzione dovuto al bombardamento massivo di stimoli e impulsi. Pensiamoci: sempre più spesso ci rivolgiamo a internet come a un oracolo che dovrebbe darci ogni risposta: che si tratti di una ricerca di studio, di informarsi oppure di intrattenerci, è in ogni caso online che sta la risposta. Risulta sempre più difficile staccarci dal pc, dal tablet o dal cellulare (cioè essere autonomi), e quando succede ci rimane spesso una strana sensazione di abbandono, come se senza quella connessione fossimo un po’ più impotenti, insicuri e soli. Che l’obiettivo dei colossi della Rete sia di capitalizzare in maniera capillare la maggiore fetta possibile del nostro tempo ce lo dice, senza troppi peli sulla lingua, lo stesso fondatore di Netflix quando spudoratamente riconosce nel sonno il suo maggior competitor.
Ed è a questa altezza che nel discorso di Byung-chul Han la critica alla nostra società si salda a un’analisi della logica della percezione, la quale necessita proprio di quei momenti di silenzio e di contemplazione oggi sempre più difficili da trovare: “se possedessimo solo la potenza positiva di percepire qualcosa, la percezione sarebbe esposta senza difese a tutti gli stimoli” e si annichilirebbe o impazzirebbe. Per fare un esempio l’occhio, in quanto organo della visione, funziona correttamente proprio in virtù della sua capacità di selezionare solo alcuni stimoli e di ignorarne altri. Questa forma di “negativo” diventa, secondo il filosofo sudcoreano, metafora nella quale si concentra la possibilità dell’essere umano di essere padrone di sé e delle proprie facoltà. Perciò gli è possibile formulare l’esistenza di una buona stanchezza, quella che lui chiama “la stanchezza che cura”, come forma di resistenza a ogni forma di imperativo prestazionale che ci vorrebbe sempre attivi e produttivi, mai fermi né stanchi, mai concentrati su noi stessi, ma sempre famelicamente rivolti verso il mondo degli stimoli. A coronamento del proprio ragionamento Byung-chul Han fa propria una citazione di Walter Benjamin il quale, parlando della noia (intesa qui come stanchezza dello spirito che, proprio in tale stanchezza, è capace di trovare il giusto riposo necessario alla facoltà creativa) la definisce “uccello incantato, che cova l’uovo dell’esperienza”. Solo dalla noia può scaturire il nuovo, mentre dalla pura frenesia non viene altro che la frenetica riproduzione di ciò che già esiste.
La stanchezza da esaurimento è legata al mondo performativo, positivo; la stanchezza che ispira è stanchezza della potenza negativa, della creazione di un intervallo, di un vuoto dell’Io. La vera stanchezza sarebbe quindi quella pigrizia di cui parla anche Barthes quando la definisce come forma radicale del “non decidere” (il I would prefer not to del dickensiano scribano Bartleby), dell’essere-qui. “Come i somari in fondo alla classe, che hanno il solo attributo di esserci. Non partecipano, non sono esclusi, ci sono, punto e basta, come dei sacchi. Di questo qualche volta si ha voglia; esserci; non decidere nulla. Esiste, penso, un insegnamento del tao sulla pigrizia, sul ‘non far nulla’, nel senso di ‘non muovere nulla’, non determinare nulla. Si potrebbero ritrovare per questa via certe tentazioni della morale tolstoiana. Nella misura in cui ci si potrebbe domandare se non si abbia il diritto di essere pigri davanti al male. Tolstoj rispondeva di sì, è ancora questo il meglio poiché non bisogna rispondere a un male con un altro male”. Ma una morale di questo tipo risulta non soltanto antiquata e desueta, ma anche profondamente ostile al nostro modo di vivere attuale volto, come abbiamo visto, alla ripetizione e all’azione illimitate. Sempre seguendo il discorso del pensatore francese: “la pigrizia potrebbe apparire come un’alta soluzione filosofica del male: non rispondere. Ma ancora una volta la società attuale sopporta molto difficilmente gli atteggiamenti neutri. La pigrizia le è quindi intollerabile, come se, in sostanza, fosse il male principale. Quello che è terribile della pigrizia è che può essere la cosa più banale, più stereotipata, meno pensata del mondo, come può essere quella più pensata. Può essere una disposizione ma anche una conquista”. Di questa disposizione se ne conserva ancora traccia, penso ad esempio ad alcuni paesi della Sicilia, dove d’estate fa un caldo insopportabile, quasi disumano, sicuramente impossibile da vivere al ritmo delle consuete attività. Dopo i pasti le signore mettono fuori dalle porte le loro sedie e stanno così, sedute senza far nulla, forse neanche chiacchierare, desiderose solo di esserci e di svanire in questa quieta comunanza. La stessa immagine la ritroviamo nel già citato saggio di Handke: “Io qui sto raccontando della stanchezza in un momento di pace, nell’intervallo. E in quelle ore c’era pace […]. E la cosa sorprendere è che la mia stanchezza là pareva collaborare al momento di pace – acquietando? Attenuando? – disarmando ogni volta già sul nascere con lo sguardo i gesti di violenza, di rissa o anche soltanto di scortesia”.
Questa seconda tipologia di stanchezza è data da tutte quelle forme di non lavoro, di riposo e di abbandono che conducono a una diminuzione dell’Ego. Ma qui ‘diminuzione’ non ha a che vedere con ‘perdita’ poiché ciò che è persa è solo la patina più esteriore di quello che noi siamo, forma di ‘positività’ che rischia di renderci più dipendenti dalle cose che padroni di noi stessi. La stanchezza dell’Io è allora, a ben vedere, la stanchezza dell’egotismo, la sua distruzione: non a caso la Weil usa il termine di “decreazione” a indicare il cammino che conduce all’Io depurato. Cammino che non comporta una mera passività, ma anzi ci permette di concedere, in quello spazio sottratto all’Ego, uno spazio di apertura e di accoglienza nei confronti del mondo dell’Alterità o, se si vuole ritornare alla precedente metafora della visione, un campo della visione nel quale ci è veramente possibile avere una visione limpida e perspicua.
In tal modo teoria della visione e dell’azione tornano a coincidere all’interno di una provocante e inattuale visione del soggetto, espressa vividamente dalle poetiche parole di Handke: “così ce ne stavamo seduti – nel mio ricordo sempre fuori al sole pomeridiano – e ci godevamo parlando o in silenzio la comune stanchezza […]. Una nuvola di stanchezza, una stanchezza eterea ci univa allora”. Un nuovo sguardo garantisce la possibilità e la tutela dell’Altro, fondando una comunità della cortesia al di là di legami di sangue e di appartenenza. “In una simile stanchezza fondamentale la cosa non appare mai meramente per sé, ma sempre assieme ad altre cose, e quand’anche siano soltanto poche cose, alla fine tutto si tiene”. Una comunità armonica fondata sul ritmo della stanchezza, sulla prossimità.
test
Bartleby dickensiano? I would prefer not…..
Molto interessante il cortocircuito tra Chul Han, Weil e Benjamin. Mi permetto di indicarvi un lapsus che sarebbe meglio correggere: “il dickensiano scribano Bartleby”, dovrebbe essere invece “il melvilliano scrivano Bartleby”.