Wrestling, sangue e demoni: da Undertaker a Lucha Underground


Viaggio nell’universo della Lucha Underground e del wrestling, sottocultura fatta di sofferenza, faide e identità di cui non ci si libera mai.


di Matteo Pascoletti

Nell’autobiografico A Lion’s tale: Around the  world in spandex, il wrestler canadese Chris Jericho racconta di come, nel 1989, quando era ancora un ragazzino da Winnipeg che inseguiva il sogno di entrare nella prestigiosa scuola della famiglia Hart, non avesse ben capito la finzione alla base del wrestling. All’epoca, sia per arrotondare sia per quella gavetta che permetteva di entrare in contatto con l’ambiente, lavorava nello staff della Keystone Wrestling Alliance, dove si occupava di montare il ring. Fu il wrestler Catfish Charlie che un giorno lo prese da parte e gli spiegò che se voleva stare nel business, c’erano alcune cose da sapere. Tra cui che l’esito di ogni incontro è pre-determinato. Jericho fece presente che sì, lo sapeva, ma che ovviamente ciò non valeva per gli incontri titolati, dove erano effettivamente i più forti a vincere, come per un incontro di boxe. La risposta di Catfish Charlie fu qualcosa a metà strada tra un’epifania e una doccia gelata: «No, i campioni sono come tutti gli altri. Vincono quando viene detto loro di vincere e perdono quando viene detto loro di perdere.»


Per la kayfabe ciò che è concordato o pre-determinato va presentato come spontaneo e vero, deve essere inglobato in tempo reale nella grammatica della finzione.


Come la letteratura o il cinema, così nel wrestling è centrale la sospensione d’incredulità. La fruizione richiede rinuncia al disincanto o allo scetticismo, e in cambio si riceve un piacere estetico, o più in generale l’accesso a un mondo governato da leggi proprie e plasmato da simboli e linguaggio. Ma come insegna l’episodio di Chris Jericho, i confini della finzione sono alquanto ambigui. La legge che li governa, nel mondo del wrestling, ha un nome specifico: kayfabe. Il termine è di etimo incerto, probabilmente nato all’interno del gergo giostraio, ambiente il cui il wrestling è nato. Ma il significato è chiaro: per la kayfabe ciò che è concordato o pre-determinato va presentato come spontaneo e vero, deve essere inglobato in tempo reale nella grammatica della finzione. È una quarta parete dai confini labili di cui potenzialmente fa parte ogni elemento, dai wrestler sul ring ai commentatori televisivi, fino alla stampa di settore. Persino il pubblico ne fa parte, perché il suo incitare o insultare i wrestler ci trascina nelle passioni espresse attorno allo scontro tra il buono (“face”, da “babyface”) e cattivo (“heel”).

Ma la kayfabe funziona anche all’inverso, ossia tutto ciò che accade fuori dalla grammatica della rappresentazione deve rientrarvi. Per cui, se si decide che un incontro debba terminare con un infortunio, avremo un wrestler che simula di essersi fatto male. Ma se un wrestler subisse un infortunio imprevisto – una spalla dislocata, una frattura – la legge della kayfabe gli imporrebbe di continuare l’incontro, magari avvertendo l’avversario o l’arbitro dell’imprevisto, senza farsi notare dal pubblico. Situazione ambigua per cui, da spettatori, non siamo mai perfettamente sicuri se una spalla rotta sia sceneggiatura o prognosi medica, se non dopo l’incontro, quando arriva l’eventuale comunicato stampa o l’indiscrezione dallo spogliatoio.


Perciò, nella sua essenza, il wrestling consiste in persone che, in tempo reale, dissimulano il farsi male per davvero intanto che fingono platealmente di farsi e far male.


Come raccontato dallo stesso Mick Foley – Mankind, nel video – in Have a Nice Day: A Tale of Blood and Sweatsocks, il terribile volo dalla sommità della gabbia al tavolo dei commentatori fu un’idea (“spot” in gergo) dello stesso Foley. Tuttavia durante l’esecuzione tanto Undertaker quanto i commentatori ebbero l’impressione di un infortunio grave, del genere “oh mio Dio, forse Mick è morto”.

Perciò, nella sua essenza, il wrestling consiste in persone che, in tempo reale, dissimulano il farsi male per davvero intanto che fingono platealmente di farsi e far male.

Lo spettatore esterno, che di solito respinge il wrestling con il discorso “lottano per finta”, è dunque simile a chi guarda un film d’azione e dice “lottano per finta”. Semplicemente, non comprende i codici di quella finzione, ciò che vanno a esprimere sul piano semantico o estetico. Condizione molto diffusa, se si considera che ancora oggi il wrestling è considerato o percepito come inerente lo sport, per cui si parla dei wrestler in termini di atleti, o lo si indicizza nella categoria “sport”, e non in quella di “spettacolo”.

Ma, come la letteratura o il cinema, così il pubblico del wrestling ha una linea di confine oltre la quale l’esagerazione consapevole – in una parola, il camp – sconfina nella boiata vera e propria. Questa linea di confine è messa solitamente a dura prova quando si introducono elementi o personaggi (gimmick) sovrannaturali.

La più famosa promozione di wrestling, la Wwe (World wrestling entertainment), nel primi anni Novanta – quando si chiamava Wwf – introduce due gimmick passate alla storia per motivi opposti: The Undertaker e Papa Shangoo. Il primo, proveniente dalla lugubre Death Valley, con tanto di rintocchi funebri e musica stile requiem ad annunciare l’ingresso, è diventato uno dei wrestler più importanti degli ultimi trent’anni, se non il più importante. Sorta di Caronte che non traghetta anime, ma avversari al tappeto, i suoi match erano costruiti per esaltare l’imponenza fisica (oltre i due metri) del “Dead Man”, la cui natura era inequivocabilmente magica. Il ritorno da periodi di assenza, per infortuni o per sconfitte in incontri a tema, come i “casket match” dove l’avversario andava messo dentro una bara, era accompagnato dal tema della resurrezione del wrestler.

Papa Shango invece era costruito sulla figura dell’houngan, il sacerdote della tradizione vudù. Gli autori della Wwf pensarono fosse un’idea vincente che un tizio vestito alla Baron Samedi (uno dei Loa del vudù), con tanto di lugubre feticcio di teschi, lanciasse maledizione agli avversari, facendoli cortorcere tra gli spasmi.

Contrariamente ai pronostici, la gimmick di Papa Shango durò poco più di un anno, seppellita dalle risate o dal gelo del pubblico. La carriera del wrestler che lo interpretava, Charles Wright, non ne risentì, come spesso accade a chi fallisce il banco di prova con il pubblico. Conobbe anzi un buon successo, grazie a un nuovo personaggio, The Godfather, e a una gimmick più immediata: il pappone.

via Internet Wrestling Database

Diverso è il caso di quando un elemento magico o sovrannaturale è calato in un contesto comico, e quindi il meccanismo dell’esagerazione è cavalcato in maniera consapevole, e non per “vendere” (come si dice nel wrestling) come plausibile ciò che sta accadendo. È il caso del tag team The Osirian Portal, composto da Ophidian e Amasis. «He’s using hypnosis!» ((“Sta usando l’ipnosi!”) grida il commentatore, mentre Ophidian, dopo il sollevamento a wheelbarrow del compagno di team, agita il corpo e le mani mimando un serpente, prima contro gli avversari e poi contro il pubblico stesso, ricordando a quest’ultimo il suo essere parte della rappresentazione. Il risultato è «The most illegal move in the history of wrestling» (“La mossa più illegale nella storia del wrestling”).

Ma come la letteratura o il cinema, anche il wrestling ha dei momenti in cui si può parlare di un prima e un dopo, un punto di discontinuità che modifica sensibilmente l’orizzonte d’attesa del pubblico. Con l’avvento dei social media, ad esempio, anche la kayfabe – e la sua eventuale rottura – si è disintermediata. Perciò i feud possono nascere o proseguire via Twitter, all’insegna della transmedialità, così come si possono avere plateali rotture della kayfabe. La scorsa estate, ad esempio, il wrestler della Wwe Titus O’ Neil ha cancellato dal proprio profilo Instagram una foto che lo immortalava a Roma insieme ad altri wrestler, durante un tour della promozione. Ma nella foto comparivano anche Roman Reigns e Braun Strowman, impegnati sullo schermo in un feud che li vedeva l’uno contro l’altro. Il fatto che simili foto creino ancora clamore o polemiche significa che, agli occhi del pubblico, i wrestler non decidono quando svestire i panni dei personaggi che interpretano.

Uno dei recenti punti di svolta, per quanto riguarda la kayfabe è Lucha Underground, lo show prodotto, tra gli altri da Robert Rodriguez, regista di film come Dal tramonto all’alba, Machete e Sin City. Pensato per un pubblico di lingua inglese e spagnola (El Rey Network per il primo, UniMás per il secondo), Lucha Underground porta la rappresentazione del wrestling a un livello di prossimità che si aggira tra l’anime Tiger Mask, il già citato Dal tramonto all’alba e picchiaduro alla Tekken. Come suggerisce il titolo del programma, Lucha Underground è innanzitutto uno spettacolo di lucha libre, il wrestling praticato in Messico. Più acrobatica e veloce, nella lucha libre giocano un ruolo importante i lottatori mascherati (alla Rey Mysterio jr) gli enmascarado, la cui identità solitamente è protetta, un po’ come se fossero supereroi della Marvel.

Se l’idea di una promozione pensata come un format televisivo non è nuova, basti pensare alla Gorgeous Lady of Wrestling degli anni ‘80, narrata di recente dalla serie Netflix Glow, lo è invece la cornice alla base del format di Lucha Underground. Organizzato per episodi e storyline come un vero e proprio telefilm, al centro della trama c’è il “tempio”, un ring clandestino dal rettangolo sporco gestito dal criminale Dario Cueto, una figura a metà strada tra Vince McMhaon (Ceo della Wwe) e un narcotrafficante. Subdolo e manipolatore, pronto a cambiare le regole persino durante un incontro, Dario Cueto attira i luchadores nel tempio facendo leva sulle loro motivazioni – soldi, conti da regolare con altri luchadores, possibilità di dimostrare quanto si vale. La maggior parte di loro è discendente di una delle Tribù Azteche, e ne richiama nel costume o nella storia alcuni aspetti peculiari. Non sappiamo bene quali siano invece le motivazioni di Dario Cueto, perché gestisca il tempio e cosa speri di ottenere dai luchadores, anche se nel corso delle stagioni vengono progressivamente svelati alcuni suoi segreti, che ovviamente qui saranno taciuti per evitare spoiler.

Fin qui nulla di eclatante, se non fosse che in Lucha Underground ai luchadores classici si affiancano demoni più o meno immortali, artefatti maledetti e stregonerie varie. Abbiamo ad esempio Drago, proveniente dall’Inframondo e presentato come l’ultimo drago esistente – a riprova un segmento alla fine della prima stagione lo mostra mentre dispiega le ali e spicca il volo. Oppure Mil Muertes: sopravvissuto da bambino al terremoto che devastò Città del Messico, è accompagnato dall’inquietante Katrina, che oltre a resuscitarlo ha la tendenza a teletrasportarsi nelle ombre – a riguardo il nerd che è in me non può fare a meno di citare il Clan Lasombra di Vampire: The Masquerade. E quando ha a che fare con avversari particolarmente ostici, Mil Muertes non ha problemi a ricorrere a sacrifici umani per incrementare il proprio potere. Sì perché trattandosi di un telefilm ci sono personaggi che muoiono a tutti gli effetti e dunque scompaiono dalla serie. Un elemento tipico della lucha libre come la máscara, dunque, in Lucha Underground per alcuni personaggi diventa qualcosa di più di un costume di scena: diventa pelle e tratto sovrumano dei personaggi. È il caso di Vibora e Pindar della tribù del serpente, che a tutti gli effetti sono rettili (analogamente al Reptile di Mortal Kombat).

In una simile cornice è tematica la possibilità dello spirito combattivo e della volontà di vittoria di trascendere i limiti umani. La stessa evoluzione di Pentagón Jr in Pentagón Dark è condotta come un’ordalia sotto la guida del suo crudele maestro, che ci riconsegna un rudo (così sono chiamati i cattivi nella lucha libre) più spietato e impavido che mai.

Incontri impari sono all’ordine del giorno, e le manovre più folli incarnano la capacità di concretizzare l’impensabile, proprio mentre l’esito di un incontro appare già scritto. Non è inusuale vedere i luchadores volare dagli spalti sul ring, o scaraventare gli avversari attraverso il tetto dell’ufficio dello stesso Cueto, interno all’arena.

Così come sono frequenti gli incontri inter-genere: non una novità, nel mondo del wrestling, ma in Lucha Underground sono una caratteristica portante, tanto che non esiste una divisione femminile o un titolo riservato alle luchadoras, e nella categoria “Trios” Ivelisse lotta alla pari insieme a due uomini, Son of Havoc e Angelico.

Sul piano del wrestling vero e proprio, una delle chiavi di successo di Lucha Undeground sta nel roster (il parco-lottatori), che lungo la spina dorsale dell’affiliata Lucha Libre AAA, innesta alcuni dei migliori talenti al mondo, tra giovani e veterani. Oltre a loro e al già citato Rey Mysterio jr, ci sono ex WWE dallo stile originale come John Mundo/Morrison, o Ricochet, tra i migliori under 30 al mondo, e che in Lucha Underground interpreta Prince Puma, discendente dell’omonima tribù. È su questa garanzia che, prolungando il successo televisivo, Lucha Underground ha iniziato a organizzare spettacoli dal vivo. Dove non ci sono effetti speciali e sacrifici umani e uomini drago volanti, e portando quindi la promozione a sfidare la concorrenza sul territorio del puro wrestling.


Lucha Underground porta la rappresentazione del wrestling a un livello di prossimità che si aggira tra l’anime Tiger Mask, il già citato Dal tramonto all’alba e picchiaduro alla Tekken.


La natura ibrida di Lucha Undeground, una volta spenti i riflettori, porta l’occhio critico verso gli aspetti contrattuali e di produzione. Tanto in Messico quanto negli Stati Uniti un wrestler è generalmente pagato a presenze: solo le stelle principali hanno condizioni più vantaggiose, per cui raggiungere un fisso annuale con bonus legati al merchandising è in un certo senso la coronazione di una lunga gavetta. E questo vale per le promozioni maggiori – WWE in primis, e a seguire di varie lunghezze Global wrestling alliance e Ring of honor. In Messico la situazione fa sì che i luchadores guardino con maggior favore alle promozioni oltre confine, e rende difficile la gestione dei rapporti nella Lucha Libre AAA, perché il volume di affari è nettamente inferiore, nonostante la popolarità di cui gode la lucha libre nel paese. Recentemente il già citato Pentagon jr e Fénix, due stelle di primo piano di Lucha Underground, hanno lasciato la promozione messicana. Da notare che, come spesso accade, una promozione detiene i diritti dei personaggi, per cui i due non potranno usare il nome con cui sono diventati popolari – Pentagón ora utilizza Pentagón Cero Medio (“Senza paura”), dato che Pentagón Jr è di proprietà della Lucha Libre AAA e Pentagón Dark è di proprietà di Lucha Underground.

Come questo impatterà su Lucha Underground è ancora da vedere. La vetrina che offre rispetto alla platea americana potrebbe diventare un’arma contrattuale in più per i luchadores scontenti della LL-AAA. È dunque possibile che Lucha Underground aggravi la crisi della scena messicana, accentuando gli attriti tra le varie promozioni – ad esempio The Crash, guidata da quel Konnan finito ai ferri corti con la LL-AAA. Come spiegato da Konnan stesso a Main Event Radio, la promozione vuole inserirsi tra i due colossi messicani, il Consejo Mundial de Lucha Libre e la LL-AAA, catalizzando quegli scontenti che finora non avevano alternative al duopolio. E proprio The Crash è la promozione messicana con cui Pentagón jr/Dark e Fénix hanno iniziato a esibirsi in Messico. Se continueranno a lavorare per Lucha Underground, sarebbe un segnale della perdita di potere della LL-AAA.

Un’altra possibilità è che Lucha Underground resti invischiata nelle politiche di spogliatoio messicane, e ne risenta così a livello di sceneggiatura e produzione, subendo. La difficoltà di produrre una trasmissione a cavallo tra Messico e Stati Uniti si è fatta sentire già per la prima stagione, quando gli autori hanno dovuto riscrivere 13 episodi per i problemi con il visto di alcuni luchadores. E in quel caso si è trattato solo di un problema burocratico.

Ma che c’è anche la possibilità che, nonostante gli apprezzamenti riscossi, e l’approdo agli inizi del 2017 su Netflix, Lucha Underground si fermi alla terza stagione. Alle voci circolate in rete sulla difficoltà di produrre la prossima stagione, a partire dalla bibbia di riferimento per chi segue il wrestling, la Wrestling Observer Newsletter, si affiancano le parole di Skip Chaisson di El Rey Network. Intervistato da Ign Us, nonostante le lodi spese per la trasmissione, Chaisson non ha in sostanza confermato che ci sarà una quarta stagione di Lucha Underground.

Tra questi scenari incerti, l’unica certezza è che anche qui il wrestling conferma le sue leggi: ciò che accade davvero vede i riflettori spenti, o i nostri sguardi diretti altrove.


Matteo Pascoletti – Una laurea in Lettere moderne e un dottorato in Italianistica all’Università di Perugia, lavora nella comunicazione digitale. Suoi testi sono stati pubblicati su Scrittori precari, MilanoRomaTrani, RiotVan e Umbrianoise. Ha pubblicato il racconto “Dizionario_del_diavolo.net” nell’antologia “Rien ne va plus” (Las Vegas Edizioni, 2009) e il romanzo “I giorni della nepente” (Editrice Effequ, 2015).
Copertina: Frida Khalo, Niña con Mascara de Muerte (Ella juega sola)

2 comments on “Wrestling, sangue e demoni: da Undertaker a Lucha Underground

  1. Alessandro F.

    Capisco la faccenda dei codici interpretativi, ma continuo a pensare che la boxe sia un’altra cosa. Uno dei rari casi in cui preferisco ‘das ding-an-sich’ rispetto all’artificio spettacolare.

    • matteo pascoletti

      (scusa, ho letto solo ora).
      Certo, la boxe è un’altra cosa, è uno sport in tutto e per tutto. Qui hai degli stunt-man in tempo reale, e una dimensione rappresentativa.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *