Emma & Cleo, Cleo senza Emma, Emma senza Cleo. Un racconto di Vanni Santoni.
IN COPERTINA e lungo il testo: delle opere di Harold Harvey
(Questo racconto è la versione aggiornata e rielaborata di un testo apparso nell’antologia L’età della febbre, edita da minimum fax, che ringraziamo)
Cleo
Sfugge il motivo per cui queste navette hanno tredici posti a sedere e novanta in piedi, forse per far sì che la gente sgomberi in fretta; se la navetta non è affollata, a volte lo squilibrio porta molti a non approfittarne, e in effetti a parte due bimbi e un’anziana con un piede prostetico sono l’unica seduta. A occhio sono anche l’unica italiana, gli altri tutti svedesi di rientro. Tutte famiglie svedesi. Tutti biondi; tutti belli, potremmo dire, ma poi, queste svedesi, questi svedesi, sono belli? Strano che lo chieda io, ma non stanno diventando strani, ora che il gusto comune si sposta verso il caffellatte, il creolo, il sudest e il sudovest, da Bibi Andersson a Beyoncé senza ritorno? Tutte famiglie giovani, poi. Famiglie di coetanei. Bella forza, te lo campa lo stato, il bimbo. Sarà vero, poi? Occorrerebbe controllare bene i dati. Magari non è proprio così, certo, ci sono i congedi, le “mammaledighet”, ma il punto forse è più che la gente a venticinque anni ha lavori di quelli con gli stipendi. Chi diceva che l’idea che ciascuno ha di ogni nazione è frutto dell’assestamento di un misto di pregiudizio e fraintendimento? Guarda questi. Due, tre, quattro figli. Un neonato. Un bambino – quanti anni avrà, cinque? – biondo, quasi bianco, con la cresta. Un altro di sei o sette, più regolare. Una bimba impeccabile che ne avrà nove. Questa mia coetanea simile a Victoria Beckham, forse un po’ più carina ma al pari prosciugata, è la madre di quattro figli. In effetti Victoria Beckham è madre di quattro figli… Ricordi, Emma, quando abbiamo visto quel servizio, sai, col cronista che beccava Beckham fuori dal Maracanà per la finale dei Mondiali, coi bimbi tutti bardati di bianco e azzurro. Albiceleste! Ma l’Argentina non è quella della Mano di Dio? Del gol in cui Maradona scarta tutti, delle Falkland? Non è forse proprio l’Argentina la nemesi calcistica dell’Inghilterra? No non lo ricordi, Emma, perché quando il cronista si è avvicinato, ha fatto pur col massimo rispetto il divertito, ha sorriso ai bimbi, e ha detto finalmente Becks… What’s up?, tu sei andata in bagno e hai detto Non so come fai a guardare ‘sta roba, mentre Beckham si è voltato verso un tifoso tedesco che passava di là in maglietta bianca e cappellino della Mercedes e ha detto You just cannot root for them.
Il babbo svedese, che a differenza di Beckham non è coperto di tatuaggi ma è comunque biondo e muscolosetto, dev’essere uno che corre o va in bici, un campioncino senior, d’un tratto agguanta il bimbo con la cresta, lo solleva e lo porta fuori dalla navetta con una faccia tutta tendini, ferma in quel serioso svedese che non sai mai bene cosa significhi. Ha fatto qualcosa e lo vuole punire? Sembra in effetti che stia per scattare un castigo. Ah quindi hai la famiglia giovane numerosa e stupenda, e però mica felice, non si scoprirà per caso che siete severissimi, che governate col terrore questi piccini? E noi qui a guardare. Fermarli dovremmo, questi incivili. Non cambiano mai: che differenza ci sarà poi, Svezia, Germania, esistevano le Waffen SS svedesi? No, a pensarci no – e la verità infatti è che il bimbo si sente male. Lo ha messo a terra; è pallido, come ingolfato, balletta sul posto. Anche Victoria è scesa. Mentre governa il resto della famiglia sorveglia da dietro gli occhiali a goccia i movimenti del compagno, rispettosa del lavoro di lui e del dolore (di stomaco, parrebbe) del piccolo. La bimba impeccabile, a cui è stato affidato il neonato, fa lo stesso, in una mimica già quasi più matura di quella della madre. Sono tutti e sei fuori, il bambino si agita, fa smorfie, lì sull’asfalto dell’aeroporto, e tutti noi, in piedi qui nella navetta ferma (io seduta), dai vetri guardiamo. Un altro babbo (di solo due, ‘sto poveraccio) esce, fornisce bottiglietta d’acqua all’omologo, che si avvicina per prenderla ma poi fa segno di aspettare. Ci siamo. Il bimbo con la cresta piazza una vomitata. Due. Arriva una specie di automobilina da golf con quattro filippini aggrappati sui bordi. Hanno bombolette grosse, bianche, professionali, roba che spruzzi sull’asfalto da un metro e comunque sgombera, e infatti eccoli che puliscono, tutti accelerati accerchiano le chiazze e le spazzano via, le cacciano e annullano spruzzando da ogni lato.
Sarebbe comodo poter fare lo stesso, spruzzare via i prossimi giorni, e con essi Emma, Emma e Cleo, la parte di me che è Emma, tenendo solo le parti luminose, al sicuro nel passato, lì al loro posto nell’Akasha. Che poi le parti d’ombra, quelle vere, sono poche e per lo più nel futuro (ok, nel futuro immediato) e non solo era stato tutto, sempre, davvero, molto bello (molto bello? meraviglioso, era) ma ancora, volendo, andava tutto bene. Almeno, molti a vederci avrebbero detto che andava bene; un campione d’indagine statistica, ecco, a cui fosse messo a disposizione un dossier su di noi, si sarebbe espresso in maggioranza, forse addirittura assoluta, per il “bene”. Sono io, al massimo, quella che si forza due dita in gola. È questo che rende la trasferta orribile. Che la rende, appunto, ingiusta. Avremmo potuto sposarci (bah), avremmo potuto fare figli – be’ quello potrei anche da sola: avremmo potuto farli e vederceli riconosciuti, ecco. Avremmo potuto averle, le mammaledighet. Trovare posto all’asilo sempre, portarli alla Serieteket del Kulturcentrum a leggere i fumetti… Avere un futuro! Insegnargli il nostro amore per le arti. Per i libri, la musica, le cose belle. Le cose buone. Per il cibo preparato a casa e quello preparato nei posti che avevamo scovato anno dopo anno e che avrebbero continuato a nascere a Stoccolma, anche se forse già pensare questo, e so che non lo penso per superficialità, è una misura di quanto la nostra relazione fosse diventata un circolo culturale e gastronomico. Oppure avremmo potuto anche non fare niente di tutto ciò, non approfittare delle agevolazioni che il Regno ci avrebbe conferito e rimanere insieme senza bimbi, visto che andava tutto bene. Stare lì, in un posto in cui la realtà è docile e le cose si possono fare davvero. In cui davvero basta partecipare. In cui una studentessa di ingegneria senza formazione specifica ma con un po’ di talento può dare retta alle fole della sua ragazza che le dice che tutto è possibile se lo si desidera, e diventare un’artista che vive di quello che fa. Oggi la tecnica conta molto meno… Mi sarei pure presa qualche merito per la metamorfosi di Emma Hagenström? Come se Firenze e quel che contiene fossi io, come se le pale del trecento in acido alla Galleria dell’Accademia fossi io, come se il Moderna Museet dove volli andare la primissima volta che venni a trovarti su fosse stato roba mia e non tua, se mai le cose nelle città sono di chi le abita o ci è nato. Avremmo potuto fare quello che ci andava, e continuare a frequentare quei musei e quei ristoranti, continuare a cucinare, ad andare ai Systembolaget a comprare il vino dallo stato, a quegli ICA con i loro banchi del pesce che sembrano usciti da un olio di De Heem… Chi ha scritto che la più pura rappresentazione dell’amore di coppia oggi è il tragitto verso casa con le borse della spesa piene? A patto che ci siano anche quelle viola del Systembolaget. E però se non ami più, l’amore altrui diventa importuno, non importa quanti vini possiate acquistare; diventa imbarazzante. I figli hanno il potere di alimentare ancora un po’ il gioco: cerchi la metà a te corrispondente, non la trovi ma cercare stanca, allora ti prendi qualcuno che per ragioni statistiche non può essere la tua metà… – com’era quella formula per il candidato ideale? Il problema della segretaria: stabilire quante se ne vogliono vagliare, chiamarne a colloquio il 36.8% ma solo per scartarle tutte deliberatamente e poi prendere la prima tra le successive che risulti meglio di esse: statisticamente è la migliore. Davvero dovevo scartare deliberatamente Emma e prendere la prima all’apparenza migliore di lei? Sarebbe andata meglio? Sarebbe durata più dei nostri otto anni? (la durata, il tempo investito, è un valore in sé? Eccomi ora a mettere punti di domanda…) Che senso ha poi parlare di meglio o peggio, quando la questione è essere o non essere, o non essere più, una parte, a volte addirittura maggioritaria, dell’altra? Certo è che per un bel po’ ci siamo parlate col pensiero e ciò che esisteva fuori di noi era nostra funzione oppure era vago e irrilevante. Avremmo potuto fare un figlio, una figlia, un figlio a testa, pensare di veder realizzata in loro la nostra unione e poi, prima che diventassero altre metà insoddisfatte rilasciate nel mondo, farne altri, e arrivare magari così a un’età in cui non ce ne sarebbe fregato più niente di niente, se non di avere qualcuno accanto sul divano, che dice cose che neanche sentiamo. Ciao, Emma, eccoci qua. Netflix non ci sarà nel 2065, ma qualcosa di buono, qualcosa che fa per noi, lo troveremo, fossero anche gli e-sport o chissà che intrattenimento del futuro… E invece no, non mi accontento, non so fingere o anche solo montare l’esistente, il rimanente, e farmelo bastare, in tutti gli ultimi scambi ti sei offera in ogni modo ma non so prendere senza dare, oppure semplicemente scopro a trentacinque anni suonati… Cosa, poi? Di non voler cambiare? Di non voler crescere? Di dare più importanza al presente che al passato? Al futuro prossimo che a quello remoto? Di essermi disinnamorata, semplicemente, allo stesso modo di quando ci si innamora? Ma quando ci si innamora non c’è forse un negoziato? E allora quando e in che termini è avvenuta quello inverso? Mi sono logorata, che dici, Emma? Ho smesso di vedere orizzonti ulteriori? Ma le prospettive si creano, mica ci sono di per sé. Ho intuito forse che tu i figli li volevi davvero, ed evitato un disastro maggiore, che avrebbe tirato in mezzo ulteriori esseri umani? Oppure mi sono solo invaghita di un’altra, sono diventata o mi sono scoperta quella che catalogheremmo come cagna incontentabile? Magari ho solo scoperto dopo una storia lunga e senza storture di volere-ancora-altre-ragazze, più belle/giovani/intelligenti o anche solo nuove (ma poi, siamo sicure che non voglio solo la libertà degli imbecilli, che non perseguo più o meno consciamente una completa e autentica rovina?) e così vado su a recidere, senza neanche un tuo torto da spendermi, il legame. A commettere quindi un delitto. Be’ almeno è giugno e a giugno Stoccolma brilla, anzi sfolgora. D’inverno è il più grande covo di lampadine natalizie al mondo, ma a giugno tutto fa luce, fanno luce anche i tetti verdi di rame, fanno luce l’acqua e i palazzi e le strade e i treni delle metropolitane di superficie, e la guglia cava, di ferro, del campanile di Riddarholm è l’ago che cuce tutta questa luce intorno a chi attraversa la città. Ha senso immaginarmi lì, che cammino sotto il sole? Non finirò forse per stare sempre in casa, in questi pochi giorni, a litigare o anche solo a piangere? Deliro a pensare di andare anche stavolta a leggere i fumetti alla Serieteket, a mangiare al Råkulturen, al Seel, al Ki Mama (è che non stabilisci facilmente legami lassù, e allora ti attacchi ai locali, alle strade…), a Tia Teresa in Barnhusgatan, con quei taco, quei burrito, le salse piccanti, il sandalo a profusione, chissà perché poi da noi non usa il sandalo – no, come si chiama quella specie di prezzemolo… Possibile non ricordarlo pur avendo ben presente la zuppiera di Tia Teresa, il suo battuto, come per la salsa di jalapeno si pesca col cucchiaione, se ne mette sempre troppo, ma in quella carne macinata di fascia bassa il fatto è che non è mai troppo né il peperoncino né sto… cavolo di… sandalo, aneto, prezzemolo… Le foglie di… Coriandolo, ecco. E guarda come inseguo un pensiero inutile per non astrarre, per non proiettare. Per non arrivare a quello che potrei scorgere: la ferita scoperta, il sangue vivo, le brutture, le sessioni Skype tragiche e sgranate delle settimane a venire, noi ridotte a essere l’una il riflesso distorto e lontano dell’altra, e poi lo scoprire tra solo qualche mese che tanto e tanto a lungo ci eravamo amate che il nome alle cose lo avevamo dato assieme, che le arti, le città, il cibo, i giochetti, erano solo la parte emersa di un atlante universale, e dopo il gesto sarebbe stato inevitabile ritrovarsi con un mondo a metà, mutilato, sgombro come una scena, fatto di oggetti sparsi, ricordi senza più la bocca, un mondo senza le parole corrette, con poche e contorte e fantasmatiche presenze, un trittico di Bacon avresti detto tu, anzi no, la Emma che faceva quei paragoni artistici così alla bona è roba di anni fa, oggi sei molto più precisa… E poi, se ti avessero chiesto di immaginare una simile situazione, avresti detto cose diverse anche nel significato, perché forse ancor più di me non avresti mai potuto pensare che potesse succedere a noi. A qualcuna nella mia posizione tu avresti detto di andare a dritto, di non guardare indietro, che conta solo il presente e allora meglio prendere chi capita e trarne tutte le soddisfazioni che puoi, sul breve. Sul breve! Andar per locali, dopo il mio rientro mesto qui a Pisa e da qui a Firenze, andar per circoli ARCI trasformati in microbalere con bandiera arcobaleno, prendermi chi capita. Spassarmela! Spassarmela senza pensare che poi una sera o una notte, alzandomi dal letto dove piano russa qualcun’altra, avrei visto riflessa in uno specchio di casa un’ombra di segni e paura, il nazgûl di chi si è ostinata a mettersi contro al tempo e alle sue leggi in nome del piacere e della vanità. E tu, parlando con qualche nostra amica o conoscente in una situazione simile, non le avresti forse detto di far proprio così, anzi di cambiare prima, di risparmiarsi direttamente il dolore della perdita, e intanto con un’occhiata neanche calcata ci saremmo ribadite che rischi del genere erano qualcosa che non ci riguardava… Le avresti detto, magari e addirittura, di fare così se crede nell’amore. Vuoi essere sempre innamorata? Allora devi cambiare, seguire la fisiologia. Avresti detto queste parole sfacciate facendo finta di non sapere che invece, se ci credi come valore in sé, allora il tuo dovere, e il dovere della tua amante, è conservarvi, o almeno tener sempre presente, quello che siete state l’una per l’altra nei momenti più alti. E i momenti più bassi? Allo zoo di Skansen. Come ti è venuta in mente questa cosa, la volta scorsa, non si sa. Già siamo in crisi, mi porti allo zoo? Cos’è, pet therapy? Conigli. Gatti. Una lince. Gufi. Bisontini europei. Un lupo che non si fa mai vedere, e infatti non lo abbiamo visto. No, a ripensarci era un gesto di una tenerezza estrema, un grido di dolore tutto sgranato e qualcosa di molto bello, allo stesso tempo. Più si va per le lunghe, più atroce è lo strascico, e allora perdonami se strappo. Tra l’altro, a questa ipotetica altra da me, tu avresti detto che la gente rimane con chi ha già perché una sera va dai genitori, li vede improvvisamente vecchissimi e si spaventa. Lo stesso motivo, avresti aggiunto, per cui si moltiplica. E chissà, magari lo stai dicendo a te stessa proprio adesso, è ancora buio lassù e sei finita in certi ragionamenti perché stai pensando a me.
Emma
No Cleo, non stavo pensando a te. Non stavo pensando a te quel mattino, in cui sapevo che venivi a ratificare quel che avevi già deciso. E non sto pensando a te adesso. Adesso, come allora, sto pensando che è difficile alzarmi. Allora pensavo che era difficile perché saresti venuta. Ma avevo il dovere di subirli, quei giorni. Di fare un ultimo tentativo, anche. E ancora uno. E ancora uno. Oggi è tutto più lineare. È difficile alzarmi perché devo andare nella stanza. Ovvero in cucina. Vedi, la chiamo già “la stanza”. No, non sorridere. Ti sto parlando ma non mi hai costretta a pensare a te. Resti bandita. Come vi entro, ne esco. Ora però devo andare nella stanza. Se voglio fare un caffè. Se voglio mangiare qualcosa. Ieri ho fatto colazione a un bar nuovo su Vasagatan. Era buono. Anche oggi ci tornerei. Ma devo risolvere. Domani è domenica. Se non risolvo, mi vedo già alla fine della settimana successiva. Meglio fare prima la doccia, e affrontare la stanza ben sveglia, o farla dopo, per sciacquare via il ribrezzo? Meglio prima. Così intanto ritardo il tutto. Posso vestirmi, mettere le maniche lunghe. Magari anche qualcosa in testa. Ecco: un asciugamano.
Respiro il vapore. Ai tempi in cui fumavo mi piaceva pensare che questo vapore del mattino sarebbe stato, assieme alla corsa, il mio salvacondotto. La mia lavanda polmonare. Se non uscivi come ogni volta, ovvio. Sì, ti sto parlando di nuovo, non fare quella faccia, come ne posso uscire, vi posso rientrare. E non fraintendermi, la doccia in sé mi piaceva. “Ci facciamo una doccia” voleva dire un sacco di cose. Lasciarsi dietro la giornata. Vagheggiare il sesso. Godere del calore centralizzato. Odiavo solo il finale. Una volta messo l’accappatoio uscivi subito e tutto il vapore se ne andava via dalla stanza.
Torno in bagno, asciutta e vestita. Il vapore è sfiatato ma appanna ancora lo specchio. Ci passo sopra col palmo. Mi guardo nella striscia che ho aperto, l’asciugamano a mo’ di velo. Il giochetto di assomigliare alla Madonna. Le assomigliavo sempre più io. E sì che la Madonna non poteva che essere mora. Non poteva che avere gli occhi neri, il viso come il tuo. Tiro il fiato. Pulita sono, coperta sono. Scendo.
Parti dalle tue ossessioni, dicesti. Avevo deciso di darti retta. Dopo le prime prove andate bene mi bastava un’idea forte per lasciare tutto e provarci davvero. Dicevi cose banali, a ripensarci. Ma le dicevi con una sicurezza che le rendeva vere. Pensai alle tue. Bocciata la sociologia, esclusi a priori i nazisti e il calcio, scartate quelle che avevamo in comune, restavano gli insetti. Così mi toglievo pure lo sfizio di lavorare con gli animali. La prima volta che dissi che magari avrei potuto fare un progetto con gli animali ti mettesti a ridere. Chiedesti se intendevo gli animali impagliati. E invece, vedi.
L’idea era questa. La tua idea, se vogliamo. E non solo per le ossessioni. Fosti tu quel giorno, allo stagno che c’è a Skansen, a farmi notare cosa stavano facendo quegli animaletti. Quali animaletti, dici? Non ricordi, eh? Eppure eri affascinata, e inorridita. Ma lo so, non ricordi mai niente di quello che davvero importa. Parlo dei tricotteri. Della Potamophylax Latipennis, che quando passa da larva a pupa, il bozzolo se lo fa con quel che trova in giro. Il suo habitat sono i ruscelli, quindi raccoglie pietruzze, sabbia e frantume di rametti. Non li mette però in modo approssimativo, come un uccello che fa il nido o le tignole quando si costruiscono quel loro cilindro di laniccio. La Potamophylax Latipennis distingue bene il legnetto dal granello, la pietruzza porosa da quella che in realtà è un minuscolo quarzo. Distingue e organizza, con perizia analoga a quella che ha il ragno per la tela ma più stupefacente poiché al bacarozzo non si riconosce il genio. Lo fa secondo categorie geometriche, spiraloidi, ricorsive, per schemi che ricordano ora il pied-de-poule, ora la geometria sacra. E se si ponessero, avevo pensato, delle larve in un terrario, e si mettessero loro a disposizione delle minuscole gemme, della polvere d’oro, una minutaglia di barrette di platino, cosa succederebbe? Succederebbe che le larve darebbero origine, incollando le particole con la loro bava di cemento, a miracoli di alta gioielleria. A qualcosa a mezzo tra un microscopico uovo di Fabergé, un elfo della macchina e una creazione della prima Bulgari.
Sì, certo, è andata proprio così. Ecco la tua eredità. Dico tutto questo ad alta voce, come per difendermi con la parola dall’orrore – Parlami, Vasquez! – mentre ormai scesa in cucina guardo la parete della finestra. Completamente infestata di Potamophylax Latipennis. Di larve di Potamophylax Latipennis. E anche di bozzoli di Potamophylax Latipennis, ma fatti di sporcizia, pelucchi, briciole di pane e pasta, mentre nel terrario vuoto giace tutto ciò che ero riuscita a farmi mettere a disposizione da Pomellato. È normale, per sfuggire a quella distesa mobile e ripugnante di ali brune e antenne, punteggiata di larve nelle poche aree libere, rifugiare gli occhi sui materiali preziosi dello sponsor. Trattenersi su quella specie di diorama. Le piccole dune di polvere d’oro solo in alcuni punti rigate dal passaggio delle larve. I rubini. Gli zaffiri. I granati. I minuscoli ammassi di barrette di platino agli angoli. Per non guardare quell’affollarsi di tignole. Perché questo sono, anche se parliamo di tricotteri. Enormi, orribili tignole. Farlo non mi risparmia però il rumore, mentre decido che non ho lo stomaco per i tempi della moka e pesco un cartone di latte dal frigo. Sono lontani i tuoi giorni, sai. I giorni della cucina, del frigorifero pieno. Sono piuttosto i giorni del rumore. Sì perché questa massa in espansione ha un suo proprio suono. È quello delle larve. All’inizio impercettibile, ma poi capace di riempire lo spazio auditivo con la stessa intensità della stridulazione delle cicale o delle cavallette. Simile a un continuo squittire o contorcersi. In effetti è proprio il rumore del contorcersi di quei corpicini. Di quei tubi di collagene. Così come le ali e le antenne coprono la parete, il suono delle larve ora fa tappeto. Ogni cosa sembra squittire. Devo ripulire questo schifo. Liberarmi da questa piccola piaga biblica. Qual è poi il mio peccato? Il mio delitto? Devo comprare delle bombolette d’insetticida. Ma poi potrebbe restarmi la cucina avvelenata. Chiamare la compagnia di disinfestazione. Sarebbe bello poter usare il fuoco. Con un accendino e una bomboletta non si può del resto fare un lanciafiamme? E sì che non ero così. Avevo, ho sempre avuto, mi hai sempre contestato, un’ordine, una precisione. Sapevo contenere perfettamente l’entropia degli ambienti. Riuscivo a presidiare anche le case da studenti. Il tracimare dello sporco. L’accumulo dei piatti da lavare. Delle bottiglie vuote. Dicevo sempre che casa mia doveva poter ricevere qualcuno senza fare schifo ai vermi. Usavo proprio quell’espressione, ricordi? Ma la mia linea era quella della prevenzione, della conservazione. A te spettava riparare. O distruggere. Ci vorresti tu, però, adesso. A volte intervenivi a caso, ma ci provavi. Non temevi i cavi scoperti o gli allagamenti. Neanche l’odore di gas ti turbava. Adoravi quando c’era da metterci una pezza con materiali improvvisati. Affrontavi con piacere anche gli insetti. Per quanto li temessi ma, se ero presente cambiava tutto. Pur di fare la dura, avresti affrontato anche un’infestazione. E, ti dirò, non era male. Ricordi quella volta, ai tempi in cui stavo in Italia, che buttasti fuori di casa quello scorpione prendendolo con un bicchiere e una cartolina, e poi la notte ti svegliasti urlando perché ti eri sognata gli scorpioni?
Ricordi cosa ero, quelle sere, quelle notti, lunedí, martedí, Firenze tutta buio, tutta vento, tu venivi da me, e a volte stavo nel corridoio, vicino al tasto che apre la porta, ma non trepidavo, anzi quasi sempre mi chiedevo se davvero avessi voglia di vederti. Se tu non fossi in fin dei conti solo una sconosciuta. Ma mi piaceva aprirti la porta appena suonavi. Il tuo trillo, il mio clic quasi sempre immediato. L’eco, da sotto, della serratura che scattava. Tu che salivi le scale di legno e il passo pesante che avevi, con quegli anfibi che portavi sempre. Un passo quasi stanco, anche se non c’era stanchezza poi sul tuo viso. A volte mi chiedevo se ero pulita. Ma ero sempre pulita, mi facevo la doccia a lungo quando sapevo che saresti venuta. A lungo tenevo il soffione tra le gambe, come quando da piccola mi masturbavo, ma non godevo: ti aspettavo. E poi spesso neanche tu mi facevi godere, mi strizzavi troppo forte, mi spostavi di qua e di là, non capivo mai cosa volevi fare o cosa volevi che facessi. Avevo in quella camera dei disegni, robaccia trovata in giro, foto di graffiti, di attrici in bianco e nero, locandine. C’era addirittura Alberto Sordi che mangia gli spaghetti. Non sapevo ancora che bisogna al massimo fare come Totò, e ficcarseli in tasca: non sapevo niente. Non sapevo niente a ventun anni e infatti avevo un poster di Amélie e questa parete terribile, un collage di immagini che mi erano sembrate, come dicevi tu, “ganze”, ma di ganzo c’era al massimo, in fondo, come una pietra buona finita per caso nella corona di peltro di un pataccaro, la cartolina di Eleonora da Toledo ritratta dal Bronzino.
A volte però ci trovavamo, e aggrovigliate, sudate, cascavamo pure dal letto, e ogni volta un po’ ne eravamo orgogliose, come chi ha compiuto chissà che impresa. A volte sanguinavo e guardando quel dito strisciato di rosso un po’ ti impressionavi e un po’ eravamo orgogliose pure di quello, anche se era solo che avevo la cistite.
Quando sei venuta qui l’ultima volta, e ho evocato quel periodo – va bene: annaspavo. Meglio annaspare che fare schifo, che dici? – ricordi cos’hai detto? Hai detto solo Avevamo un sacco di tempo. La tua mania del tempo. Di non perdere tempo. Di mettere a frutto il tempo. Pensare di aver buttato otto anni sarà la tua condanna. Non sai guardare il passato come io non sapevo guardare il futuro. Non pensavo che ci saremmo viste per molto. Che saresti mai venuta su da me. Né avrei voluto, allora. Una volta dicevo sempre che era cruciale rimanere in quello che una ragazza con cui ero uscita un paio di volte a Brighton chiamava il “fading range”. Quello in cui puoi lasciare qualcuno semplicemente scomparendo. Non facendoti più sentire. Sostenevo che si doveva godere solo del primo sbocciare di una relazione. Della demo, dicevo. E davvero credevo fossimo lì, in quei giorni. Tu con la tesi quasi finita, io con giusto due esami da fare per giustificare l’Erasmus. Un sacco di tempo, sì. Le serate occasionali che diventavano regolari. Che diventavano intere giornate. L’inizio della seduzione dell’arte. Il primo germoglio dell’idea di abbandonare quello che avevo fatto fino a quel momento. Di seguire una vocazione tardiva e forse illusoria. Assurda come l’idea di poter coltivare per anni un amore a duemila chilometri. Noi lassù al quarto piano, che scopavamo e cascavamo dal letto e ridevamo. Oppure con la tua pronuncia balorda mi leggevi cose tipo Where the yew trees blow like hydras / The tree of life and the tree of life e liquidavi qualunque mio dubbio dicendo che avrei potuto essere qualunque cosa. A volte, quando te ne andavi e restavo sul letto a comporre col lapis orari di lezioni di Elettrotecnica e Analisi Matematica e Informatica a cui non sarei andata mai, o a riempire l’agenda di date di sessioni che pure avrei saltato, e sentivo i tuoi ultimi passi pesanti giù per le mie scale di piazza del Carmine, pensavo che forse ti amavo davvero, oppure pensavo solo Mah, e mi mettevo a giocare a Puzzle Bobble.
A volte pur di non studiare ero capace di giocare a Puzzle Bobble anche per cinque, sei ore. A volte cominciavo la sera e giocavo finché non sentivo gli uccellini fuori e mi dicevo Mamma mia Emma come ti sei ridotta. Quello fu il mio altro momento di disordine. Quando cominciammo a stare insieme. Anche allora, come oggi, smisi di andare a correre. Sono quindi fasi di transizione? Sintomi della transizione? Quella volta lasciai Ingegneria. Posso oggi mollare l’arte? No, non posso. L’epoca del tempo infinito non esiste più. È per questo che sei scappata? Che sei venuta a ratificare la tua fuga? È molto vile, sai, fuggire dalla natura delle cose. Molto peggio che posticipare.
Sì, perché adesso, mentre là sotto si moltiplicano le tignole, mi sono messa a giocare a Burrito Bison Revenge, dove c’è un bisonte che viene scagliato dalle corde di un ring di wrestling e poi deve rimbalzare su degli orsetti di gelatina. Ricordi, una volta ti proposi di giocare assieme. Ridesti dicendo che tu, comunque, ti eri formata con le Barbie. Te lo mostrai e dicesti che gli orsetti sembravano quelli di Oswley Stanley III. Mi raccontasti tutta la sua storia. Quante ne sapevi. Ricordi quella volta che Pernilla disse che eri “so full of trivia”? Ti arrabbiasti, dicesti che a casa tua si chiamava cultura. Non so quanto sia cultura sapere che costui era il fonico dei Grateful Dead ma anche il produttore di cento milioni di unità di LSD. Che Jimi Hendrix ne acquistò centomila e fece in tempo a usarne solo settantadue. Che quell’acido non stava nei francobolli o negli zuccherini ma negli orsetti gommosi. L’estetica di Burrito Bison Revenge è in effetti piuttosto psichedelica. Chissà, forse in California se dici orsetto gommoso, a quello pensa ancora la gente…
(Forse dovrei fare un progetto con gli orsetti gommosi)
Vedi che mi ricordo tutto? Quando sparavi un aneddoto, anzi quando dicevi una cosa, qualunque cosa, la prendevo come una gemma. La conservavo. Ce ne ho messo di tempo, a non essere più quella piccola delle due, sai. E però adesso le tue pietruzze le ho ancora tutte con me. Cosa devo farci? Non il bozzolo, da sola. Né vorrò portarmele nella tomba. Bambini non ne avrò, e in ogni caso sarebbe stato a te trasmetter loro la tua parte… Partita a Bejeweled? Meglio il bisonte. Ecco che carica… 7,949,360 “plays” solo su questo portale. Ogni giorno, nel mondo, decine di migliaia di persone buttano il loro tempo a scagliare il bisonte. Lo scagliano come da una fionda (e su: play!) e quando atterra (lancio discreto, non ho perso la mano. Vediamo come va l’atterraggio…) lo guardano rimbalzare su orsetti gommosi di vari tipi. Orsetti gommosi normali. Orsetti con crediti extra. Orsetti aviatori, col palloncino, con cappellino a elica, a cavalcioni di un missile. Opzioni tutte acquistabili e upgradabili. Nei giochi in Flash di oggi non è più importante saper giocare. È sufficiente giocare. Non riesci a procedere? Gioca di nuovo. Accumula crediti. Compra altri upgrade. Se non ce la fai adesso, sarà quaranta partite dopo. Ho quasi trent’anni. Buona salute. Da poco lasciata. Nessun legame territoriale. Con l’arte sono certamente più soddisfatta che con l’ingegneria. E invece di chiudere il piano di progetto che potrebbe valermi la residenza e la possibilità di dedicare tutto il mio tempo – tutto il tuo caro tempo, eh Cleo? – all’arte, lancio il bisonte di burrito sopra dozzine di orsetti e a ogni partita dico, ad alta voce, questa è l’ultima, questa è l’ultima, e ne faccio altre due, sei, trentotto, fuori c’è ancora luce ma sono le 4:04, la giornata è andata e non solo non ho chiuso il progetto ma non ho neanche disinfestato la cucina, questa è l’ultima, e il bisonte adesso ha pacchi di upgrade e balza di orsetto in orsetto, e prende l’orsetto aviatore, prende quello col cappellino a elica, guarda come vola, quello col missile, col palloncino, con l’aereo, e come balza, e ancora un’altra sono le 5:16, le 6:38, le sette, e se oggi voglio fare qualcosa, produrre qualcosa, minimo mi tocca svegliarmi alle quindici e cosa può mai fare di buono, una persona che si alza alle quindici? Ti rinfacciavo sempre di aver lasciato casa dei tuoi solo a ventisei anni. Di essere viziata, per quanto tardi ti alzavi. Dicevo che ciò non ti dava il diritto di parlare di tempo perduto o guadagnato. Sorrideresti, forse, a sapere che domani mi alzerò alle quindici. Diceva sempre la mamma che avevo preso da mio padre, che se non dormiva almeno otto ore non era in grado di far niente, si aggirava per casa, sfogliava libri – chissà quante ore dorme oggi che ha ottant’anni, mio padre.
Balza, bisonte!
Cleo
-->E ogni volta che prenderà un pullman dall’aeroporto, sarà quel pullman: ogni volta, che sia il bus di linea che la porta in centro a Lisbona per una vacanza, l’Orlybus che la reca a Denfert-Rocherau per un lavoro, finanche il pullman notturno che sostituisce il treno da Pisa a Firenze, Cleo tornerà al suo primo pullman lassù. Al mezzo crepuscolo in cui restava fisso l’orizzonte, all’autostrada costeggiata di alberi sottili, una linea dritta e fluida in cui ogni elemento accessorio, strisce, cartelli, pannelli elettronici, guardrail, cabine SOS, ringhiere di cavalcavia, sembrava nuovo, appena installato, e nuovi là fuori sembravano i palazzi con le scritte al neon, prima i marchi più grandi e comuni, poi i nomi scandinavi, Bergsaker, Shurgart, Lindhagen, e ancora ogni tanto un fienile o una stretta casa a punta e le rocce enormi a bordo strada e sotto i cavalcavia, le luci rosse di ciminiera alla distanza, quelle bianche dei capannoni, fino all’oro dei primi lampioni cittadini, delle finestre dei condomini, delle insegne retró dei cinema e dei teatri, un’oro raddoppiato nel suo riflesso sull’acqua che si apriva ovunque in baie e canali mentre spuntavano palazzi sempre più antichi e scintillanti, e si chiedeva se poteva essere così un luogo dove il tempo si estende ovunque e non esiste il male.
Emma
E una volta in cui quasi per caso ha ricordato in tempo che è sabato, e che sabato il Systembolaget chiude prima, e in tempo è uscita per raggiungere il più vicino, e siamo ormai in un’epoca in cui le Potamophylax Latipennis hanno preso a produrre gioielli in serie come una maison e lei ha ripreso a correre ogni giorno, a prepararsi per la mezza maratona, Emma nota attraverso la vetrina, un passo prima di entrare, un cappello. Un cappotto bordó. Un certo modo di tenere i sacchetti con le bottiglie di vino. Non le salta il cuore in gola, no. Capisce quasi subito, dalla curva dei fianchi, dagli stivali che Cleo non porterebbe, che è – com’è naturale, non può avere la faccia tosta, il coraggio, i nervi, di tornare qui, o almeno di farlo così presto – qualcun’altra. La guarda però uscire, i sacchetti viola del vino, uno per mano, come pesi di una bilancia; si trattiene un poco sul viso spigoloso, sul ciuffo chiaro che spunta dal cappello, sugli occhi azzurri anzi grigi.
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