La politica della rabbia

Oggi si tende a criticare la rabbia dal basso in quanto intrinsecamente impolitica e irrazionale, ma allo stesso tempo essa viene sempre più spesso invocata dall’alto e rivolta contro le persone più deboli. Ma la rabbia ha una funzione costruttiva nella lotta contro le ingiustizie e le discriminazioni.


IN COPERTINA e nel testo, Karl Kraus Mehrkens, Senza titolo (2002) – Acrilico su tela – Asta Pananti in corso

Questo testo è tratto da La politica della rabbia di Franco Palazzi. Ringraziamo nottetempo per la gentile concessione.


di Franco Palazzi

All’interno della tradizione critica occidentale, si attribuisce di solito al lavoro di Félix Guattari e Gilles Deleuze la distinzione fra la “schizofrenia come processo” e “lo schizofrenico come entità clinica da ospedalizzare”. Secondo i due autori francesi, la società capitalistica “produce schizofrenici come sciampo Dop o macchine Renault”, tenendo sotto una sorveglianza costante quelli che non può rinchiudere in manicomio. Lo schizofrenico internato “è una persona che ha tentato qualcosa e ha fallito, è crollato”; il “rivoluzionario”, invece, è colui che vive la schizofrenia come processo, che la incarna non sotto forma di condizione psichiatrica, ma in quanto “limite esterno” del capitalismo. Senza nulla togliere all’originalità di questa riflessione, occorre notare che due psichiatri afroamericani, William Grier e Price Cobbs, avevano sviluppato con alcuni anni di anticipo una lettura in parte simile del rapporto tra schizofrenia e razzismo negli Stati Uniti. A loro parere, la schizofrenia nei neri non era solo una malattia mentale, ma anche una modalità di adattamento del tutto “sana” a un contesto fortemente ostile: un certo livello di “paranoia culturale” nei confronti delle intenzioni delle persone bianche poteva infatti fare la differenza fra la vita e la morte. Non c’era dunque nulla di insensato o di casuale nella black rage.

Se ci forniscono la prova dell’esistenza di modi politicamente radicali di concepire e mettere in pratica la rabbia di gruppi oppressi, addirittura ribaltandone la patologizzazione, i riferimenti al femminismo radicale, ai settori più militanti dell’antirazzismo e all’anticolonialismo sollevano anche numerosi interrogativi. Quello forse più prevedibile riguarda la questione della violenza: una politica che predichi una risposta rabbiosa all’ingiustizia strutturale finirebbe per essere necessariamente violenta?

Prima ancora di provare ad abbozzare una risposta, non si può non notare come il tema della violenza venga abitualmente posto, negli stati cosiddetti liberaldemocratici, in una sorta di campo minato ideologico. Da un lato l’avvento e il mantenimento della liberaldemocrazia hanno richiesto storicamente l’impiego di quantità anche notevoli di violenza; dall’altro, tale regime tende a essere ritenuto una sorta di punto di non ritorno, un assetto istituzionale oramai estraneo al ricorso alla violenza. Da una parte lo stato liberaldemocratico fa manifestamente impiego di numerose forme di violenza tanto diretta (l’apparato poliziesco e carcerario, l’esercito) quanto indiretta (per esempio in termini di mancata fornitura di servizi vitali ad alcune fasce della popolazione); dall’altra la menzione della violenza appare ammissibile nella sfera pubblica liberaldemocratica unicamente nel registro retorico della condanna (“la violenza è sempre sbagliata”). Queste contraddizioni sono il frutto della scarsa capacità contemporanea di pensare la politica al di là dell’ipoteca, a un tempo istituzionale e concettuale, dello stato moderno16. Non a caso la disponibilità a chiudere quasi sempre un occhio sulla violenza esercitata anche illecitamente da funzionari statali va oggi di pari passo con l’elevata repressione nei confronti dei movimenti sociali giudicati “radicali”. 

Al fine di mettere a margine tale ipoteca, seguo Étienne Balibar nell’osservare come da un punto di vista storico le politiche di lotta all’oppressione, che rappresentassero l’emblema della violenza (il leninismo) o quello della nonviolenza (il gandhismo), hanno sempre intrattenuto un rapporto conflittuale e contradditorio con la legalità statuale. Violare una o più leggi dello stato, nella prospettiva fatta propria da questo libro, costituisce un elemento né necessario né sufficiente a configurare un’istanza di violenza politica. 

Stabilito quindi che un agire violento non equivale a una condotta illegale, occorre indagare la relazione fra violenza e rabbia. Nel suo ultimo libro, Judith Butler sfata l’equivoco secondo il quale la nonviolenza dovrebbe accompagnarsi a una disposizione d’animo “pacifica e tranquilla”: come le stesse campagne gandhiane di disobbedienza civile indicano, “la nonviolenza è [spesso] espressione di rabbia, indignazione e aggressività”. L’utilizzo della forza fisica, prosegue Butler, non deve essere inteso come sinonimo di violenza, poiché può riferirsi, per esempio, anche a “modalità che permettono di rendersi ostacolo, di usare la solidità del corpo e il suo campo propriocettivo per bloccare o far deragliare un ulteriore esercizio di violenza”. Al tempo stesso, dare voce alla propria rabbia non può escludere il ricorso potenziale a mezzi violenti: arrabbiarsi per l’oppressione subita implica la rivendicazione della propria dignità. Una dignità che non consente più di accettare pacificamente quanto si è incassato fino a quel momento. La violenza di questo tipo, tuttavia, si presenta raramente come cieca o incontrollata – coloro che hanno vissuto sulla propria pelle la violenza dell’oppressione sono ben consapevoli della difficoltà di prevederne e gestirne le conseguenze, soprattutto nelle situazioni in cui una violenza spropositata potrebbe convincere nuovi nemici a scendere in campo o portare i vecchi avversari a tentare la via della rappresaglia (aspetti su cui tornerò criticamente fra poco).

Questa dinamica emerge con chiarezza nel caso del femminismo radicale, un movimento che portò avanti una critica spietata e furente allo status quo patriarcale ed ebbe un grande impatto sociale, ma che nel complesso fece un uso assai raro di tattiche violente. Tra le poche eccezioni, prevalentemente in chiave difensiva, ci fu l’apprendimento delle arti marziali, che a ben vedere era radicato nella stessa storia del movimento femminista. Già ai primi del xx secolo, infatti, le suffragiste inglesi avevano iniziato a praticare il jujitsu, allora appena introdotto in Gran Bretagna. Se inizialmente lo scopo era stato quello di dotarsi di un metodo di difesa nella vita privata, le attiviste adattarono ben presto gli insegnamenti ricevuti per difendersi dalla brutalità poliziesca. Analogamente, una delle militanti di Cell 16, Abby Rockefeller, insegnò alle proprie compagne il taekwondo per difendersi dagli abusi sessuali. Il pretesto per l’avvio di un corso di autodifesa fu estremamente prosaico: una notte alcune componenti del gruppo furono avvicinate da un’automobile con dentro alcuni uomini che iniziarono a interagire con loro in modo molesto. Roxanne Dunbar-Ortiz fece presente con una certa veemenza che le loro avance erano del tutto indesiderate, al che il guidatore si sporse dalla vettura e provò a colpirla con un cric, finendo però immobilizzato dalla mossa di taekwondo di Rockefeller, dopo la quale l’aggressore e i suoi compari si dileguarono. Ciò che le femministe radicali trovarono nelle arti marziali non fu semplicemente una maniera di sfogare la propria rabbia verso l’esterno invece che in comportamenti autolesionistici, ma anche quella che si potrebbe definire “un’etica marziale di sé”, una tecnica che non aveva un soggetto propriamente riconosciuto preesistente, ma che lo faceva emergere con il proprio farsi – è questo uno dei significati che Foucault attribuiva al termine soggettivazione. Divenire soggetto significa iniziare a comprendere la propria potenza, ciò di cui il proprio corpo è capace e la responsabilità politica ed etica che ne deriva. La rabbia, lungi dall’essere lasciata fluire casualmente, entra allora a far parte di un’ascesi, un “esercizio di sé su sé” che è minuziosamente regolato senza per questo sottomettere il soggetto a una legge esterna. 

Karl Kraus Mehrkens, Senza titolo (2002) – Acrilico su tela – Asta Pananti in corso

Uno scettico potrebbe obiettarci, a questo punto, che una simile lettura della rabbia può anche essere poetica, ma è destinata a rimanere inefficace. Non è forse vero che la rabbia viene agita politicamente dagli oppressori, molto più che dagli oppressi? E se si riconosce questo dato quasi banale, la rabbia degli oppressi non rischia soltanto di stimolare quella, solitamente più forte e distruttiva, di coloro che li opprimono? In effetti, la nozione stessa di oppressione sembra implicare una certa asimmetria di forze che ci riporterebbe dove siamo partiti: se c’è una possibilità che chi patisce una forma strutturale di ingiustizia ha di far comprendere le proprie ragioni a chi da quella ingiustizia trae vantaggio, essa non prevede il ricorso alla rabbia, ma all’argomentazione pacata. Arrabbiarsi può convenire ai potenti, ma raramente farà il gioco delle persone che occupano la base della piramide sociale. 

Per rispondere all’obiezione, guardiamo prima di tutto alla storia: non risulta che chi opprime abbia mai ceduto troppo volentieri i propri privilegi, e l’ottenimento di concessioni anche molto parziali ha spesso richiesto un forte ricorso alla rabbia popolare. Gli annali sono pieni di proteste, scioperi, rivolte e rivoluzioni – non certo tutti falliti, e che anzi non di rado hanno avuto una profonda influenza socio-culturale anche quando non hanno avuto successo dal punto di vista politico. Sarebbe però scorretto derubricare una critica del genere a mero cliché reazionario, perché restituisce un pensiero comune in ambito liberaldemocratico. L’idea di fondo è che, all’interno di un regime rappresentativo che garantisce una serie di diritti fondamentali, puntare sull’uso politico della rabbia costituirebbe una mossa obsoleta: spaventerebbe infatti i settori moderati dell’opinione pubblica; condurrebbe alla mobilitazione di opposti estremismi; nel complesso indebolirebbe i movimenti che lottano contro l’oppressione.

Vorrei abbozzare da subito quelle che ritengo le repliche più efficaci a questo modo di ragionare. Innanzitutto, c’è da fare una considerazione in termini di utilità. Tenendo presente che in società pluralistiche un’agenda politica ha solitamente bisogno di un ampio consenso per venire implementata, manifestazioni anche giustificate di rabbia da parte di chi richiede il superamento di ingiustizie strutturali non finirebbero con il rendere tale superamento più difficile da realizzare? Ovviamente ignorare del tutto la dimensione teleologica della rabbia, vale a dire il fatto che essa ci aiuti o meno a raggiungere determinati obiettivi, sarebbe un errore, e possono senz’altro darsi circostanze nelle quali l’assetto delle forze in campo sia tale da rendere più funzionale una strategia maggiormente remissiva. Nondimeno, è tutt’altro che evidente che scenari di quest’ultimo tipo siano la norma. Nell’ambito dell’attivismo femminista degli ultimi decenni, per esempio, a puntare più esplicitamente sulla rappresentazione delle donne coinvolte come arrabbiate sono stati i movimenti impegnati sul fronte del contrasto alla violenza di genere – tutto quell’arco di azioni che va dalla molestia fino al femminicidio. Un recente studio condotto in settanta paesi durante un lasso di tempo di quarant’anni ha dimostrato che l’azione di questi movimenti è stata in assoluto il fattore che ha influito di più sull’adozione di norme e politiche pubbliche contro la violenza di genere (risultando dunque più rilevante di variabili come l’azione dei partiti di sinistra, la presenza di donne nell’esecutivo o il livello di ricchezza nazionale). Persino manifestazioni di rabbia apertamente violente, come le rivolte antirazziste del 1992 a Los Angeles, hanno spostato significativamente l’opinione pubblica locale (sia nera che bianca) su posizioni più prossime a quelle dei dimostranti, con ricadute in contesti tipicamente istituzionali come le elezioni30. In altre parole, il ricorso alla nozione ideo-logica della folla impazzita non è destinato ad avere sempre le meglio. 

L’argomento degli “opposti estremismi”, dal canto suo, è tornato particolarmente di moda nell’ultimo periodo, in due versioni principali. La prima insinua che, una volta messo in moto un discorso politico fondato sulla rabbia, le posizioni di chi si oppone all’ingiustizia e quelle di quanti vorrebbero conservarla il più a lungo possibile finirebbero per diventare sempre più simili, accomunate da una crescente intransigenza che poco si attaglierebbe a una sfera pubblica democratica. Di fronte all’ovvia replica secondo cui, fra una donna che esprime la propria rabbia contro il patriarcato e un attivista dell’alt right che si adira perché oggi le donne dominerebbero sugli uomini, solo la prima si indirizza contro una forma di oppressione osservabile empiricamente (mentre l’altro è in malafede o paranoide), coloro che sposano questa versione ribattono che, al netto di ogni differenza, entrambi i tipi di rabbia sarebbero mossi da un malsano desiderio di vendetta. Si consideri l’esempio seguente, tratto da un saggio di Martha Nussbaum:

Supponiamo semplicemente che l’analisi empirica sia corretta: se i ricchi pagassero più tasse, ciò aiuterebbe i poveri […]. E ammettiamo, inoltre, quello che sarebbe inevitabile: i ricchi insorgerebbero, lamentandosi di questo cambiamento. Adesso immaginiamo due persone favorevoli a tale cambiamento. p pensa in termini di benessere sociale. Scandalizzato dall’ingiustizia, egli vuole produrre una società più giusta. Non crede che l’eventuale sofferenza dei ricchi dovrebbe impedirci di fare ciò che è giusto, però non vuole quella sofferenza. In effetti, dal momento che potrebbe motivare una resistenza politica al proprio progetto, vorrebbe che non ci fosse alcuna sofferenza. q, al contrario, vuole il cambiamento benefico, ma le piace anche l’idea che i ricchi soffrano, come restituzione e punizione per la loro arroganza e avarizia. […] Disgraziatamente, gli attori politici veri, compresi gli elettori, sono di rado puri come p. 

Collochiamo ora questa vignetta nel suo contesto, sia teorico (un libro nel quale si sostiene che, con rare eccezioni, il ricorso alla rabbia in politica è sempre problematico e potenzialmente controproducente) sia geografico, vale a dire gli Stati Uniti, dai quali Nussbaum scrive e a cui si riferisce la gran parte degli esempi contenuti nel suo corposo testo. Analizziamo quindi le sue affermazioni una per volta. La supposizione iniziale sembra senz’altro in linea con quello che sappiamo sugli Stati Uniti: si tratta di un paese con forti disuguaglianze in termini di reddito e di patrimonio, che sono andate aumentando negli ultimi decenni a vantaggio di una ristretta minoranza; la popolazione statunitense gode di servizi pubblici che, per qualità e quantità, sono inferiori a quelli a cui hanno accesso gli abitanti di paesi con livelli di ricchezza comparabili; tali servizi sono andati restringendosi negli ultimi decenni e sono visti a volte come una vera e propria fonte di vergogna dinanzi alla società (percepire sussidi perché si è poveri è considerata una colpa individuale). Alla luce di questo, la seconda premessa appare più discutibile: è certamente vera dal punto di vista empirico, infatti una delle ragioni del basso livello di imposizione fiscale sui grandi patrimoni e redditi negli Stati Uniti è la smodata influenza dei super-ricchi sulla vita politica33, ma in un certo senso il fatto che chi ha grandi redditi e patrimoni “insorga” contro la possibilità di una tassazione più elevata è tutto meno che “inevitabile”, è il frutto di una precisa scelta. Gli abbienti e specialmente i molto abbienti, in sostanza, sanno che rifiutandosi di pagare maggiori tasse condannano ampi settori della popolazione a gravi privazioni (scarsa copertura sanitaria pubblica, accesso ridotto alla formazione universitaria, pochi sussidi per disoccupati e disabili ecc.), ma optano nondimeno per la difesa a oltranza della loro ricchezza.

Nel confronto fra p e q, Nussbaum parla della possibile “sofferenza” delle persone ricche per un aumento dell’imposizione fiscale a loro carico. La fonte di tale condizione non è chiara – nulla di quanto la studiosa scrive può lasciar pensare che, dopo il supposto incremento nella tassazione, tali individui non continuerebbero a essere estremamente privilegiati e a trovarsi in cima alla gerarchia di classe che caratterizza le economie capitalistiche. L’unica eventualità verosimile è quella che si tratti di una sofferenza meramente psicologica, derivante da un attaccamento molto forte al denaro – il che spiegherebbe in primo luogo la loro opposizione alla proposta di imposte più progressive. In tal caso, però, lungi dall’essere “eventuale”, la “sofferenza” dei ricchi diventa “inevitabile” quanto la loro scarsa simpatia iniziale per la tassazione: tutta la distinzione tra p e q, fra un’ipotetica rabbia politica ben pettinata e la rabbia vendicativa che nella realtà caratterizzerebbe anche chi è animato dalla giustizia sociale, finisce per non avere nessuna implicazione pratica, arrivando a scomparire. Se l’unico modo per implementare una fiscalità meno ingiusta è far “soffrire” chi si troverebbe a finanziarla, la scelta si riduce a un’alternativa fra prevenire il temporaneo malumore di una minoranza privilegiata e un significativo incremento dei servizi per gran parte della popolazione. Che scegliendo questo secondo scenario p e q provino o meno un senso di rivalsa nei confronti dei super-ricchi (cosa che peraltro sarebbe abbastanza comica, visto che questi ultimi continuerebbero a essere i membri più potenti e avvantaggiati della società) è completamente irrilevante. Va poi notato che, anche a prendere per buona la versione di Nussbaum, neanche la “vendicativa” q augura in alcun modo ai ricchi di diventare poveri – mentre il suo rallegrarsi per la loro diminuita ricchezza non può essere chiaramente separato dalla soddisfazione per un aumento dei servizi pubblici. 

Il problema della narrazione sugli “opposti estremismi” è questo: chi la sostiene non riesce ad accettare, come Nussbaum, che possa esserci qualcosa di giusto (e addirittura di auspicabile) nella rabbia che desidera ardentemente che i propri avversari politici stiano, in un certo senso, peggio. Ma non si può superare il patriarcato senza togliere agli uomini tutta una serie di privilegi dei quali essi godono in un ordine patriarcale, né il razzismo senza impedire alle persone autoctone di approfittare della situazione precaria di lavoratrici e lavoratori immigrati per pagarli meno. È bene sapere dall’inizio che politiche femministe e antirazziste incontreranno quelle che Nussbaum chiama “resistenze politiche”, e invece di illudersi che mantenere un basso profilo le farebbe scomparire, non sarebbe meglio prepararsi ad avere la meglio sui propri avversari?

La seconda – e più raffinata – versione della tesi degli opposti estremismi, pur ammettendo l’esistenza di un abisso fra la rabbia degli oppressi e quella degli oppressori, sostiene che una reazione davvero violenta di questi ultimi diventerebbe possibile soltanto di fronte a un approccio aggressivo e provocatorio da parte delle persone oppresse. In una tale prospettiva, bisognerebbe rinunciare alla rabbia non per il rischio di diventare come coloro che vogliamo combattere, ma per prudenza. In altre parole, non dobbiamo dare ai suprematisti bianchi l’occasione di dire che l’attivista nero picchiato senza ragione dalla polizia se l’era cercata, perché aveva assunto un fare insolente nei confronti degli agenti – al contrario, occorre essere costantemente rispettosi, immacolati. C’è, in questo ragionamento, un elemento di buon senso che sarebbe sciocco negare: ribellarsi allo status quo sarà sempre un percorso in salita e ricco di difficoltà, per cui andare a moltiplicare inutilmente gli ostacoli da superare e i rischi da correre sarebbe folle. D’altro canto, bisogna tener presente che a provocare più di ogni altra cosa spinte reazionarie non è la rabbia di coloro che chiedono uguaglianza, ma i risultati che essi riescono a ottenere, indipendentemente dal loro essere o non essere arrabbiati. 

Carol Anderson ha definito “rabbia bianca” quella forma di razzismo che si contrappone ai miglioramenti concreti delle condizioni dei neri negli Stati Uniti. Nella maggior parte dei casi essa non si manifesta in modi eclatanti, ma agisce tramite dinamiche istituzionali (“tribunali, assemblee legislative, vari settori della burocrazia”) rivelandosi “assai più efficace e distruttiva” di tattiche apertamente terroristiche come quelle del Ku Klux Klan. Anderson incentra la propria analisi su cinque manifestazioni di rabbia bianca: le leggi e le sentenze della Corte Suprema che vanificarono in buona parte l’abolizione della schiavitù avvenuta al termine della Guerra civile; la segregazione abitativa con la quale le città del Nord risposero alla Grande Migrazione che vide milioni di afroamericani spostarsi a settentrione; la resistenza dei singoli stati all’eliminazione della segregazione razziale nelle scuole, dichiarata incostituzionale a livello federale nel 1954; l’interminabile ostruzionismo nei confronti della piena applicazione del Voting Rights Act, una delle più grandi conquiste del Movimento per i diritti civili; l’ondata di odio e complottismo che ha accompagnato l’elezione del primo presidente nero e la riscossa suprematista che avrebbe portato a succedergli Donald Trump. Sarebbe difficile sostenere che eventi come la Great Migration o le vittorie di Obama siano avvenuti in un clima di rabbia da parte della popolazione razzializzata: la rabbia poteva costituire uno dei suoi molti elementi, ma non si presentava certo come la tonalità emotiva principale. La campagna per la desegregazione del sistema d’istruzione fu condotta con tenacia dalla National Association for the Advance-ment of Colored People, le cui tecniche d’azione furono però improntate a una prudenza estrema, proprio nel timore del backlash che poi, nonostante ogni cautela, si verificò. La ricchissima carrellata storica di Anderson dimostra che non importano le modalità con cui è di volta in volta avvenuto l’avanzamento dei diritti della popolazione nera – fu l’avanzamento stesso a scatenare la rabbia reazionaria di parte delle persone bianche. 

A questo tipo di analisi è andato ad aggiungersi da poco un corposo studio del politologo Devin Phoenix, che copre un periodo esteso dalla fine degli anni ottanta al 2018. Phoenix dimostra l’esistenza, nell’arco di tempo considerato, di un vero e proprio “gap di rabbia” (anger gap) nella popolazione non bianca (in modo particolare afroamericana): le persone nere, nonostante siano spesso vittime di rappresentazioni caricaturali che le vorrebbero irascibili e follemente aggressive, manifestano sentimenti di rabbia per la situazione politica con una frequenza significativamente più bassa di quelle bianche. Il dato si riflette in una minore tendenza alla partecipazione politica e in maggiori rischi per coloro che decidono di mobilitarsi in modalità come cortei e dimostrazioni, rendendo l’influenza sulle istituzioni di questo gruppo già discriminato ancora più ridotta. I risultati della ricerca sono particolarmente impressionanti perché rivelano che, al di là di quanto un insieme di persone oppresse possa effettivamente abbracciare l’uso politico della rabbia, il gruppo dominante potrà raffigurarlo con successo come minaccioso. E dunque, viene la tentazione di concludere, non avrebbe senso valutare l’eventualità di arrabbiarsi sul serio?


Franco Palazzi è dottorando in Filosofia all’Università di Essex e autore di Tempo presente. Per una filosofia politica dell’attualità (ombre corte, 2019). Collaboratore di Jacobin Italia e Il Tascabile, ha scritto per numerose riviste italiane e straniere. Con nottetempo ha pubblicato La politica della rabbia. Per una balistica filosofica (2021).

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